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ARGOMENTO: VOCALI, Voyelles (A. Rimbaud)

VOCALI, Voyelles (A. Rimbaud) 5 Anni 4 Mesi fa #1

  • fintipa2
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A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu : voyelles,
Je dirai quelque jour vos naissances latentes :
A, noir corset velu des mouches éclatantes
Qui bombinent autour des puanteurs cruelles,

Golfes d'ombre ; E, candeur des vapeurs et des tentes,
Lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons d'ombelles ;
I, pourpres, sang craché, rire des lèvres belles
Dans la colère ou les ivresses pénitentes ;

U, cycles, vibrements divins des mers virides,
Paix des pâtis semés d'animaux, paix des rides
Que l'alchimie imprime aux grands fronts studieux ;

O, suprême Clairon plein des strideurs étranges,
Silences traversés des Mondes et des Anges :
- O l'Oméga, rayon violet de Ses Yeux !


Sono fermo alla pompa del gas, quando all’improvviso una mosca mi attraversa la scena quasi bucolica (un litigio tra gazze, un cane che esce dalla cuccia di mattoni forati, un cactus sfiorito da poco, sfondo verde di ulivi e senecio). E’ così, guardandola dall’alto, che si rivela il disegno della “A” Nera, piccola e volatile vocale dell’alfabeto rimbaudiano, con balzi nervosi tra l’avambraccio sinistro e il cristallo del finestrino. Corpetto villoso e fetore che immagino di un mondo lontano e sporco, contrapposto all’altro assolutamente bianco. “A “ed “E”, in successione mentale come tesi che chiama antitesi nell’appello dialettico. E dunque cristalli di ghiaccio, Re bianco eternamente in lotta col nero, nemici giurati su scacchiera, metafora della guerra, dove tocca all’esercito vero farsi male. Tanti squarci, sui corpi, feritoie lunghe e strette come labbra tese in un sorriso di ironia amara, “I“ purpuree da cui sgorga il magma vitale. Le accompagna “U”, largo diapason da contenere prati e mari verdi, vibranti in superficie ma in fondo quieti come nell’onda lunga che scivola sul blu abissale, specchio dell’altro che abita gli altissimi cieli e fa da tappeto a ingressi così grandi da contenere mondi e sovrumani silenzi interdetti ai mortali ma non agli angeli. “O” corolla santa e Tuba da cui tutto proviene, il suono conosciuto e sconosciuto ed a cui tutto torna, “O” Omega finis mundi.

La mosca intanto è volata via. Il benzinaio bussa al finestrino. Riapro gli occhi. Anche le gazze sono scomparse, rimane il ricordo di queste vocali che aprono e chiudono mondi inattesi, frapponendo il più semplice simbolismo –tra forme geometriche delle cose e riproduzione di suoni elementari-tra me e la campagna intorno per farmi arrivare a considerare la poesia, il regno del linguaggio come non sia solo suono ma figura, odore, colore e sapore. Occorre distaccarsi da significanti impregnati di universalità pescati nell’ovvio. Poesia è strumento potente di conoscenza, che ha per oggetto l’ignoto nascosto nelle oscure intimità del linguaggio stesso, fiume navigabile che sottostà a leggi di trasformazione di materia in energia e viceversa. Il grande mistero è questa forza che attraversa ciascuno di noi, che solamente tutt’intera è in grado di stare all’altezza dell’altra che scorre nelle vene di ciò che chiamiamo Natura. L’alchimia del verbo inventa simboli per ogni colore, cioè l’ elemento che accomuna immagini, scene, metafore per accedere a suoni, odori, sapori e svelare l’intimità di noi stessi, di ciò che attraversa il tempo come un battello. Si ha l’impressione di un linguaggio in cerca di una totalità espressiva che sopperisca ai limiti di quello regolato da necessità pratiche-quantitative e che si articola per associazioni\opposizioni capace però di portare a galla verità nascoste dentro di noi nel mondo inaccessibile, forse spaventoso e tragico, dell’Io identico ad Altro ma non a sé stesso e dunque scisso nella sua stessa essenza. Chi è Edipo? Il figlio di Polibo o di Laio? Chi è il poeta? JE EST UN AUTRE. Il poeta non è un Io poiché questi non è in grado da solo di svelare l’ignoto Essere del mondo e dunque ha bisogno di liberarsi dalla sensibilità particolare testimoniata dai sensi.
Ma con quali mezzi si affronta il fatto di svegliarsi tromba e non ottone? E chi è in fondo l’Altro che recita col teschio del singolo poeta sulla scena? La risposta è nella capacità “divina” del poeta di INVENTARE IL VERBO, CREANDOLO DAL NULLA, ed imporre al mondo, un nuovo alfabeto che traduca in simboli universali le proprietà dell’ inesprimibile, l’ignoto per eccellenza che sottostà al divenire delle cose, la fonte di ogni colore, odore, sapore, circostanza. Il fatto che il singolo diventi VEGGENTE significa che esso si fa oracolo di qualcosa che si impone ai singoli come la forza stessa della natura che ci attraversa, capace, di scuotere dalle fondamenta la coscienza, che è sempre coscienza storica, determinata dalla sua epoca e dai suoi limiti e metterla di fronte al mistero del suo essere al mondo.
E dunque l’autenticità del poeta si riconosce nel fatto che non parlando per sé stesso ma in nome dell’Altro riesca ad imporre il fascino della forza che lavora il fondo delle nostre anime, plasmandole di contraddizioni estreme, di angosce, paure ed esagerazione, ma anche di bellezza sublime, dannazioni infernali ed elevazioni paradisiache.
Ben pochi poeti si riconoscono in questo schema, un esempio fra tutti potrebbe essere Sylvia Plath di cui il grande Seamus Heaney riconobbe l’ispirazione oracolare.

C’è speranza per qualcuno dei poeti in giro?
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