Il mare ancora invisibile ma assordante. La corsa è finita sulla sporgenza di uno sperone roccioso appeso nel vuoto che separa la vita dalla morte. Un passo mimato a ritmo di danza mi solleticava per provare un'ebbrezza di cui avrei voluto godere almeno per una volta. E non c'erano limiti alla paura camuffata dalla stoltezza.
Il saltello dei passi, uno dopo l'altro in triste andirivieni, era scanzonato e infondeva coraggio. Mi facevo forza, e aspettavo di volare preda di ali immaginarie che mi crescessero forti e lunghe. Aprivo le braccia e respiravo aria e profumi che arrivavano dal precipizio, un miscuglio di salsedine, rosmarino, di salvia e di mirto per dare aroma alla mia incoscienza che negava il pericolo. Una folata di vento m'istruiva nel chiedere perdono, era benevola nell'assoluzione che non sapevo di chiedere, mi prometteva una risata che cavalcava in corsa su prati e dossi verso l'inverosimile caparbio e affascinante.
Prima del grande passo mi voltavo a scoprire se alle mie spalle ci fossero angeli ad abbracciarmi in volo. Ed io, girando il capo, mi scoprivo lieve con gli occhi poi chiusi annusando forte la paura  degli uccelli, rossa come la corteccia denudata del sughero.
C'erano i rami degli ulivi che provavano dolore nel torcersi con un richiamo di foglie d'argento al sole accecante.
La corsa è finita al richiamo di un amico più piccolo che aveva occhi azzurri come il mare ed una bocca da uccellino implume che cinguettava nel forsennato silenzio intorno.
I ricordi sono le orme impresse nella terra arsa di uno sperone roccioso appeso nel vuoto che separa la vita dalla morte.

Profilo Autore: Libero  

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Se non avessi messo la giacca marrone, probabilmente saresti ancora vivo. Hai aperto il tuo armadio e steso il braccio destro tra gli innumerevoli indumenti che ornavano la tua collezione di stampelle. Ne avevi sempre avute troppe, ancor più "troppe" dei tuoi troppi vestiti. Il tuo braccio ne uscì con il solito, vecchio e liso giubotto di tela nero. Quella mattina però avevi una strana voglia, di quelle che ti prendono all'improvviso, talmente fulminanti che nemmeno lo sai di subirle in quello stesso momento, in quell'istante: avevi voglia dei suoi occhi, del suo sguardo su di te. Come amavi quando ti ammirava, quando senza parlare ti indicava la via per il paradiso semplicemente mostrando i suoi incisivi, incorniciati nel suo irrinunciabile sorriso. Quella voglia ti prese, che tu nemmeno sapevi di subirla, e subendo subendo, pensasti di distendere di nuovo il braccio, chiedendo pegno alla stampella che reggeva la giacca marrone, quella bella, il cui contrasto quasi ti colorava il viso. La indossasti davanti allo specchio, e subito fosti sicuro che le saresti piaciuto. Tu e lei eravate uguali, lo sapevi, anche se lei non lo sapeva. Eppure era stata proprio lei a svelartelo, raccontando di sè ai tuoi occhi. Avevi solo lei ad affollare i tuoi pensieri, solitamente ingolfati da ammennicoli più o meno consoni ad un trentenne che si portava più di 100 anni di vita tutti sulle spalle. Un' ultima sistemata ai capelli, una spruzzata di acqua di colonia ed eri bello che pronto. Prima di uscire dalla porta portasti al termine il tuo solito rituale, inserendo nella serratura la tua chiave, senza girare, voltandoti poi verso lo specchio dell'ingresso per un'ultima sistemata. Eri bello, ti vedevi con i suoi occhi, bello per lei che di bellezza aveva la tua stessa concezione. Concludendo la girata della chiave e chiudendo la porta alle tue spalle ti condannasti al patibolo, ma non lo sapevi. C'era una vetrina molto bella, con dentro un vestito giallo molto strano che ti fece pensare subito a quanto le avrebbe donato. Proprio in quel momento le tue rotule volarono sul marciapiedi di fronte, il tuo cervello si spappolò in innumerevoli frammenti, il tuo intestino scivolò sul ruvido asfalto di cui il tuo sangue aveva già preso possesso. Non vedesti mai il fattorino della pizza che ti prese in pieno con la sua auto e non vedesti mai quella fetta di pizza gigante che svettava sul tettuccio sporca del tuo sangue maledetto. Non vedesti nulla, tutto avvenne in pochi istanti, vedesti una cosa soltanto: lei e i suoi incisivi esibiti nel più bel sorriso che una donna con un fantastico vestito giallo possa avere. "Che bel modo di morire" pensasti nell'ultimo dei secondi della tua vita, sazio di lei e del tuo stesso amore mai corrisposto ma sempre legato indissolubilmente alla soavità del tuo animo. Se non avessi perso 10 secondi per riporre il tuo solito giubotto di tela nero, sostituendolo con la bella giacca marrone, ora saresti ancora vivo, vivo ma infelice, perchè lei non ti avrebbe mostrato gli incisivi, proprio come fece misericordiosamente negli ultimi istanti della tua vita.

Profilo Autore: Demonius  

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Posso raccontarti la storia mia, quella di un bambino Calabrese che per decisione dei genitori

ha lasciato la sua terra, i piccoli amici ed il cuore.Posso raccontarti come piangeva la mia maestra

delle elementari il giorno che ho detto di andarmene al nord e di come piangeva mia madre con

mio fratello maggiore perché non volevano lasciare la Calabria. Ricordo quel treno come fischiava

e quelle montagne così grandi che solo in televisione avevo visto.

Posso raccontarti di un bambino che per forza di cose è diventato grande sopportando le prime umiliazioni

dai nuovi compagni di classe o da tanta gente che lo chiamava terrone, un fanciullo che giocava coi soldatini di piombo e tirava calci ad un pallone

nel viale non ancora asfaltato, un piccolo bambino timido che aveva paura di parlare perché gli dicevano che era solo un bambino.

Si! Un bambino che piangeva tutte le notti senza farsi sentire e pregava il Signore…Un bambino solamente un bambino ma grande dentro… Posso

raccontarti la mia storia se ti va, la storia di un piccolo Calabrese arrivato al nord negli anni settanta, la gente ci guardava male convinta che

rubavamo a loro qualcosa ma per fortuna non tutti erano così c’era pure chi aveva un cuore e ragionava… 

Una storia mia e come tanti altri bambini trasferiti al nord perché la loro terra non dava pane ed arrivati in un mondo totalmente diverso.

Un freddo cane faceva quei giorni di dicembre, c'era la neve ed io non l'avevo mai vista, avevamo solo una stufa e la stanza era così fredda,

ci mettemmo tutti in un letto io i miei tre fratelli mio padre e mia madre. Eravamo al nord però ervamo tutti insieme, uniti, una famiglia....
Profilo Autore: RAFFAELLO CONCA  

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Dalle fessure della finestra i raggi del sole rischiaravano la stanza, nella quale io e le mie sorelle dormivamo praticamente abbracciate.
Al centro un comò antico separava il nostro dal lettone grande e più in la vicino al caminetto , il tavolo con le sedie, la credenza, il lavatoio e poggiato su una panca un giradischi tutto dorato che mia mamma aveva avuto in dote da mia nonna, funzionante prima  era ormai diventato stridulo nei nostri pomeriggi , quando tutti intorno  al fuoco ricamavamo tele di lino, intrecciavamo i capelli di bellissimi fiocchi colorati e sgargianti e  raccontavamo vecchie storielle .
Sebbene non avessimo tutte le comodità e fossimo lontani dal paese, non sentivamo il bisogno di tutto quel vocio o di quei rombi di macchine e di tutto quel chiasso nelle vie, il nostro unico compagno di giochi era Capriccio, il fiume.
Nelle giornate calde amavamo sguazzare nell'acqua, rincorrere i pesci, bagnarci i vestiti e sfuggire alle urla di nostra madre che sbottava , a stenti riusciva a prenderci e quando ci riusciva...quante botte! Quella che le prendeva sempre ero io, la più terribile diceva!
In effetti non ero una bambina modello, Chiara e Maria Grazia erano cosi diverse da me , cosi graziose nei vestitini rosa quando alla Domenica andavamo a messa, anche io lo indossavo ma come se fosse un indumento non un accessorio da sfoggiare con civetteria.
Che certi miei comportamenti fossero poco femminili me lo ricordava mia madre tutte le sere con quelle sue raccomandazioni e le cose da fare o non fare .
Rosa mi diceva:  le tue manine sono graziose e non devono saper di terra o di lucertole, sei una bella bambina e le bambine non fanno i dispetti, le smorfie e non tirano i sassi alle persone che vengono a trovarci, quelle persone ci danno da mangiare, sono il nostro pane!
Ma all'età di 10 anni come potevo capire i sacrifici della vita?
Certo capivo che quando le pioggie erano frequenti nostro padre imprecava, capivo che quando qualche giovinetta del paese doveva sposarsi, mia madre era indaffarata a ricamare e capivo pure che ogni Domenica mettevamo sempre lo stesso vestitino.
Io , la più "terribile" avevo intuito la semplicità della nostra famiglia e  avrei tanto desiderato di cambiarla.

Durante la bella stagione l'orto era zeppo di verdure e gli alberelli in festa, accanto alla staccionata giaceva un carretto che nostro padre utilizzava per andare a vendere al paese, quel mestiere lo portava sempre fuori dall'alba al tramonto e quando rincasava aveva l'aria stanca di chi avesse in un solo giorno capovolto il mondo.
Con quel suo continuo annuire sulle cose, quella sua vita piena e vuota di calli, di capelli bianchi e di duro lavoro nei campi.
La stagione fredda invece era un castigo,  costretti a rimanere dentro, ad ammiccare lo sguardo  dai vetri, a guardare "Capriccio" in piena e gli alberi senza vita, tutto aveva un velo di tristezza, solo quel grande quadro appeso alla parete pareva vivesse in armonia, un paesaggio di tutti i colori pastello e di pascoli abbeverarsi lungo la riva del fiume.
L'inverno si affrettava a passare e tutto fuori riprendeva lentamente a vivere , le prime foglie, le prime gemme e le giornate ripresero il gusto dell'aria aperta, tutto ricominciava!
E fù proprio in una di quelle belle giornate che dal cancello spuntò una grande macchina,  strombettando impazzita, all'improvviso apparve lei : "Zia Elvira"!
Era la sorella di nostra madre che non avevamo mai conosciuto , si era sposata con un uomo ricco più grande di lei,  che aveva soldi a palate e siccome aveva deciso di cambiare vita se ne andò con lui in America.
Lei, dissi tra me e me sarebbe stata  la nostra occasione !

Una donna elegante, ben vestita, molto diversa da nostra madre, una grande chiacchierona,  parlava e parlava , ci raccontava di tutto, persino della  prima traversata del mare-oceano  con la nave chiamata "Lazzaro" che durò un mese, poi di quando arrivarono a New York , tutti quei posti meravigliosi e lontani dalla miseria , della nostalgia della  famiglia , poi ci parlò tantissimo del marito,  di tutti i grattacieli che aveva costruito, gli occhi gli luccivavano, perchè era scomparso da poco, la sola cosa che non si perdonava era quella di non avergli potuto dare dei figli, sapete ci disse:  tutta colpa dell'oceano, la cicogna non era riuscita a toccare terra!


Sulla nostra si! Dissi io ... e ne ha portato ben due e la stessa notte!

Chiara e Maria Grazia erano gemelle,  cosi diverse da me , loro timide ed io terribilmente sfacciata!

I giorni che seguirono furono bellissimi e le notti organizzavamo balli, feste e spesso dormivamo sotto la grande quercia , la Zia ci raccontava storie bellissime e noi  sognavamo ad occhi aperti principi azzurri in groppa a cavalli bianchi galoppanti e delle lucciole ne facevamo fantasmi danzanti, intrecciavamo collane di primule e margherite , riempivamo cesti di more selvatiche,  ci sentivamo libere e quel cielo era soltanto il nostro, stando insieme a lei ero diventata un'altra e la mamma me lo ricordava a tavola di quanto fossi diventata brava! 
Sentivo di volerle un gran bene, per tutte le cose buone che ci comprava, per i consigli, per l'affetto,  lei mi aveva dato tanta voglia di crescere!
Poi un giorno dentro quella grande macchina , la vidi scomparire nel nulla, cosi come era arrivata cosi se ne era andata, lasciando un vuoto grande come il cielo.

Si sa che le cose non durano all'infinito , dopo tutto quel soffocare rivelai la mia vera natura, quella di una capra selvaggia , dai capelli avizziti  di erba e mani sporche.
Ben presto dimenticai quell'Estate meravigliosa, tutte quelle passeggiate all'aria aperta, le storielle, i giochi spensierati, i vestiti , quanto era cambiata la nostra casetta tutta imbiancata con i fiori alla finestra e quel giradischi sempre acceso, quasi volesse rompere la nostalgia.
Ma non dimenticai lei, quella donna era riuscita a farmi desiderare di essere grande.
Ogni anno ad Agosto, nella notte di San lorenzo, alzo gli occhi al cielo e per ogni coda luminosa che sfreccia rapida desidero che il mio affetto oltrepassi l'oceano e arrivi dritto al suo cuore.  




                                                                                                                                                                    Giugno 1996
                                                                                                                    (Fatti e personaggi descritti sono immaginari)
Profilo Autore: Caterina Morabito*   Socia sostenitrice del Club Poetico dal 14-03-2014

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Rideva di quel sorriso era fatale dilatava nel cuore una gioia 
una sera d'estate sulle mura venete incantati dalle luci nella notte di
un sublime tramonto danzavano sinuose le nuvole predendo forma e colore di rosa perlace 
Si sentiva una musica era balsamo per l'anima in una notte
cosi lunga scatenavano i ricordi e le eomzioni di tutta una vita vissuta tra le mura di questa città.
Respiravo un vento nomade guardando le stelle al cielo e cullandomi dal chiarore della luna mi affascinò in eterno la sua bellezza
mi decantava versi di poesia mentre mi stringeva la mano i ricordi mi conducevano in quella casa custodita dove conoscevano già i nostri nomi.
La piazza dove tutti i bambini giocavano con i getti d'acqua e sopresi dal suono delle campane in festa mentre nella notte un lungo rintocco di campana
annuciava la ninna nanna della buonanotte nel silenzio buio solo le stelle si vedevano dalla finestra della camera e mi copri dal suo manto fino a farmi addormetare
 











Profilo Autore: Eleonora Carullo  

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