Già a diciotto anni avrei voluto un figlio. Il mio fidanzato di allora era molto spaventato,controllava che prendessi la pillola. I bambini mi sono sempre piaciuti, l’idea di avere un figlio è sempre stato un mio sogno.
Ero molto saggia e ho aspettato di avere una situazione sentimentale ed economica stabile prima di mettere una creatura al mondo.
La società in cui vivo non mi ha permesso di averlo presto, dopo la laurea ho avuto difficoltà a trovare lavoro, ho dovuto viaggiare e anche i rapporti con gli uomini ne hanno risentito.
Per una donna conciliare l’amore con il lavoro è difficile, non impossibile, ma difficile.
Ho avuto il primo figlio a 35 anni. Mio marito ed io eravamo molto felici lo desideravamo entrambi. I primi mesi di attesa per me sono stati una gioia, il miracolo della vita dentro di me si stava compiendo e si stava realizzando il mio sogno: avere un figlio.
Il ginecologo mi consigliò l’amniocentasi, un esame per verificare se il feto non avesse anomalie cromosomiche. Fu l’inizio di un calvario.
Mio marito disse: “ Fai questo esame così, se ci fossero dei problemi, sei in tempo ad abortire”.
La frase mi rese muta, non riuscii a dire una parola per molto tempo e pensai molto alla durezza del suo pensiero. Quando mi fui ripresa dissi: “ E’ nostro figlio, lo amo già, cosa faccio se ha dei problemi lo butto?”
“Cosa pensi che facciano questi esami da fare?”, rispose con cinismo. “ Io lo amo già!!!” , risposi con le lacrime agli occhi. “Io farò l’esame, ma sappi che se riscontreranno problemi lo terrò comunque”.
“Sappi che io non sono d’accordo”, rispose girandomi le spalle. Tutto era già scritto.
A mio figlio riscontrarono la trisomia 21. Fu terribile ciò che dovetti sopportare e sentire da tutti. L’unica persona che mi confortò fu mia madre che mi disse: “ Anch’io farei come te, anch’io lo terrei”
Mi bastò quello per andare avanti.
Con mio marito fu una lotta quotidiana di frasi che mi spezzavano il cuore e ipotesi catastrofiche per la vita futura di nostro figlio.
Iniziai a documentarmi e a parlare con più persone possibili in grado di potermi aiutare, mio marito non si interessò, non lo voleva, rifiutava la mia decisione. “ Sarà un infelice, non sarà mai indipendente, come farà a cavarsela?” . Certamente erano dubbi che avevo anch’io, ma era mio figlio. “ Ci sarò sempre io, ti aiuterò per tutta la vita fino a che avrò un briciolo di forze” , pensavo tutti i giorni rivolgendomi a lui.
Nacque un bel bambino, così piccoli la patologia non si percepisce. I primi tre anni andò tutto relativamente bene, anche mio marito sembrava più tranquillo.
Crescendo, però i tratti somatici, il linguaggio iniziarono a palesare il suo problema. “ Un down a scuola avrà sempre problemi”, iniziò a dire mio marito. “ Certo che avrà problemi, ma ci sono le insegnanti di sostegno, ci siamo noi!”, dicevo io per calmarlo.
Il peggio iniziò alle scuole elementari, era ormai troppo chiaro che mio marito rifiutava i problemi di nostro figlio ormai molto evidenti. Il nostro rapporto fu chiaramente minato da tutto il dolore che ci circondava, un dolore che io e mio marito sopportavamo in modo diverso: Io combattendo, lui con il rifiuto.
Ci separammo e le sue visite furono sempre più rare. Tutto il carico della situazione era sulle mie spalle.
Sola, in una giungla di dolore e burocrazia, combattevo una battaglia all’ultimo sangue.
Mio figlio intanto cresceva, forte e simpaticissimo. Lo amavo così tanto che il suo handicap a volte spariva, eravamo io e lui con il nostro legame forte e speciale.
Un giorno passammo davanti ad una pista di pattinaggio. C’erano molti bambini che prendevano lezioni con il loro maestro un ragazzone forte e dai modi dolci e scherzosi con i ragazzi. Mio figlio volle fermarsi a guardare. “ Mamma guarda cosa fanno, mamma guarda che bello”, diceva indicando i ragazzi intenti nell’allenamento. Rise e parlò così forte che l’istruttore sentì e si avvicinò a noi. “ Ciao, come ti chiami”, si rivolse a mio figlio con un sorriso che non dimenticherò mai. “ Luca, anch’io voglio pattinare!” “Certo se tua mamma vuole puoi” , disse prendendo la mano di mio figlio. “ Ma, non so, forse è piccolo”, dissi io quasi balbettando. “ Quanti anni hai Luca”, disse il maestro rivolto a mio figlio “Otto, e voglio pattinare”, perché dici che è piccolo? Il maestro si rivolse a me dandomi del tu e guardandomi dritto negli occhi.
Mi sentii a disagio e lo presi da parte: “ Mio figlio è down!” “ Il maestro fece una risata: “ Ha le gambe, cammina, parla, mi risponde perciò può pattinare. Tutto il resto sono paure tue, ah il mio nome è Riccardo”
Era la prima volta che mi imbattevo in una persona che trattava mio figlio come gli altri, non considerò l’handicap come un ostacolo. Era vero Luca poteva pattinare.
Iniziò una bella avventura, non era coordinato come gli altri bambini, non apprendeva velocemente come gli altri, ma i progressi erano evidenti.
Il maestro era speciale, non smise mai di credere in lui, lo spronava e sgridava quanto bastava per motivarlo.
Luca andava volentieri agli allenamenti , io ero sempre con lui ad assistere. Un giorno Riccardo mi disse:
” Perché stai sempre qua? Non dico questo perché non mi faccia piacere vedere una bella donna come te ai bordi della pista. “ Devo aiutare Luca sai …” “Sai cosa?”, disse Riccardo ridendo. Qua non ci sono problemi.“ Devo allacciargli i pattini”, dissi io evitando il suo sguardo. “ Finché lo farai tu lui non imparerà mai”, disse Riccardo allontanandosi e facendo una bellissima evoluzione sui pattini.
Da quel giorno lo lasciai solo agli allenamenti.
Passò molto tempo, un giorno tornai alla pista per portare i pattini a Luca che aveva dimenticato in macchina.
Mi fermai un poco a vedere gli allenamenti. Luca si mise da solo i pattini ed entrò sulla pista, rimasi meravigliata dai progressi. Chiamai l’allenatore e lo ringraziai. “ E’ il mio lavoro, l’ho scelto, mi piace, lo faccio con passione”, rispose lui con un sorriso che scaldava il cuore.” Ma mio figlio …” , dissi io. “ Tuo figlio, fa quello che fanno gli altri, con un po’ di difficoltà in più, ma con il tempo ci arriva”.
“Tuo marito non viene mai a vederlo?” , disse Riccardo cercando il mio sguardo. “ No, ci ha lasciati”, risposi con un filo di voce. “ Alcune persone si conoscono veramente quando sono messe di fronte a situazioni difficili, bene posso invitarti a cena allora?” Riccardo sorrideva e io non risposi, rimasi lì ai bordi della pista in silenzio.
Passò ancora molto tempo quando Luca mi disse che avrebbe dovuto fare una gara.
Andai alla pista e vidi Riccardo: “ Ciao”, mi disse lui con il suo solito sorriso, “Come mai qua?”. “Penso che Luca non sia in grado di affrontare una gara”, dissi io tutto di un fiato. Riccardo rise di gusto, mi prese le mani e disse: “ Stai tranquilla vieni con me a vederlo” “ E’ down, la giuria non lo accetterà, per motivi di assicurazione, sono abituata a questi problemi”, dissi io stingendo le mani di Riccardo. “ Infatti io l’ho iscritto come Luca, non come Luca il down”, Riccardo parlava e sorrideva, mi disarmava. “Riccardo se succede qualcosa la colpa è tua”, dissi io preoccupata. “ Lo so, sono pronto a rischiare! Vieni con me a vederlo e stai tranquilla”
Il giorno della gara ero tesa e preoccupata, ma quando fu il turno di Luca non credetti ai miei occhi, la musica e Luca erano un tutt’uno e ad un certo punto le lacrime non mi permisero di vedere bene.
Mi sentii abbracciare da dietro, era Riccardo: “ Dai, ti commuovi?” Tra le lacrime dissi: “ Grazie, tu hai fatto un miracolo”. Riccardo mi abbraccio forte, mi baciò: “ No, sei tu che hai fatto un miracolo, un miracolo d’amore”.
Commenti
Per fortuna non tutti gli altri sono uguali e non tutti scherniscono chi è in difficoltà anzi ci sono persone capaci di fare miracoli per far star bene chi viene a loro affidato
Cara Silvana, sotto i miei racconti ci sei sempre e quando mi metto a scrivere penso se l'argomento possa piacerti. Grazie!
Brava!!