VAJONT 1963

IL RACCONTO.

Fu tempo d'una gita.

Gita d'un Italia comune: classica, colma o vuota; familiare o edonistica.

Verso Cortina fermammo la fame a Longarone.

Distratto giorno, disimpegnato il fare.

Lassù s'intravede la diga.

Si sale e s'osserva.

Auto messa sul ciglio e gambe ignare del percorso ed eccomi scendere sulla frana: passo dopo passo sin dove s'appoggia al sanguinolento cemento di sbarramento.

Risalita affannosa, silente e incosciente.

Un viaggio prevede una meta e la meta un ricordo, il ricordo uno scritto.

Il tempo fece quello che t'aspetti da esso: passò.

Poi... i passi tornarono lenti e grevi.

Il sentire si fece cupo, il colore d'autunno che sfumava e connotava la vita non fu più sui monti: si trasferì nell'anima.

Parlarono allora i frammenti di roccia, sussurrò il silenzio dentro.

Il monte si destò guardandomi dall'alto.

Infine la diga parve volere il mio tributo alla sua fame.

Fu allora che quel luogo reclamò una parte di me.

Ciò che era fatuo divenne chiaro e chiara e limpida la visione dell'oscurità dell'uomo.

Ogni singolo ciottolo viveva, raccontando di sé agli altri; descrivendo vicende e desideri,

sogni e paure. Infine parlò la morte con gli occhi dell'uomo, perché spesso si nasconde nell'agire e nel pensare.

Ora sapevo che quella carezza non data s'era sparsa con il vento della distruzione, valicando la sua essenza, trasformandosi in alito di vita.

L'ignara rabbia dell'inconsapevolezza s'era poggiata lontano, viveva e pulsava e in forma divina parlava agli uomini.

Quel giorno parlò a me lasciandomi un refolo di speranza tra la tempesta dell'idiozia.

Mi raccontò di genti normali, d'uomini e donne normali e di bambini pronti per la vita.

Mi chiese di portar lontano la sua mano là dove sotto il fango dormiva Longarone.

Là dove un nome recava in sé il suo destino.

Vajont.

LE SENSAZIONI DELL'ANIMA.

NOTTE

“Scende sera,

d'un ottobre estivo.

Scende nel silenzio dei monti

ignara della natura,

cieca di fronte alle genti”

L'ECLISSI

“Guardano stelle

del Piave la valle.

Dorme il Toc,

abbracciando la notte.

Luce s'assopisce,

che viva più si mostrerà.

Destino ignaro aspetta

lasciando il fare quotidiano

tra finte normalità.

Alta si staglia

della diga l'ombra,

tra monti adagiati

a unire ciò che non può.

Fulgido esempio

di malefico ingegno,

mero lo scopo

senza alcun giustificato contegno.

Poi si desta il monte

verso il basso

e s'accomoda il mondo alle vestigia

d'un dio pagano.

Tu uomo sei causa,

se sol avessi compreso della natura il nome.

Marcio vuol dire,

marcio come il tuo agire,

marcio come il tuo putrido cuore.

Allora,

via Erto,

via Casso,

sotto l'onda infame,

sin giù dove Longarone vive.

Allora morte e vento s'alzano

in canti d'inferno.

E poi silenzio,

pianto.

Pianto e suono d'umana pietà

a sollevare fango dagli uomini.

Questa la valle,

questo il mattino”

LA RABBIA

Rabbia inondò il cuore e allora scrissi,

scrissi dell'uomo.

Un uomo che credette d'esser in gioco

non sapendo di vivere in un gioco

legato miseramente al suo giogo.

Tira uomo,

tira pure il carro dell'idiozia

che finirai per esser schiavo della tua pazzia.

L'UOMO.

Venne un uomo chiamato uomo e di sé aveva la convinzione d'esser uomo.

Venne in nome del profitto,

lasciando in terra resti d'un falso re invitto.

Era nuova nelle valli compariva,

mentre giustizia lentamente moriva.

LA MASCHERA

Son io che di maschera dipinto

regolo vite dall'onda sospinto.

Son io padrone di miseri destini

nell'ora in cui ossa raccolgo in tini.

Non giudicarmi nel giudizio

non temo di cader dal precipizio.

Tronfio del mio agire

vedrai dove l'amore può finire.

Son conosciuto e rispettato le mie schiere apron tutte le porte,

non temere sarai attore del mio tripudio di morte.

IL TEMPO

Oziava il tempo e nell'esser tempo ripose la giara

e voltò la clessidra.

Spense dell'esser vivo d'un colpo il sospiro

e gocce di sangue nell'argilla mossero il tiro.

Nulla constò l'osservare dal grezzo cemento

il piedistallo d'un tremore fisso nel monumento.

Notte d'ombre immani privarono di sorrisi le genti

e non furono tombe ad accoglier i poveri redenti.

Il profondo sapere non trovò ascolto,

del dire,

il vero non fu accolto.

PIANGI

Piangi mia terra nel tuo fango ribelle

nel tumulo tuo di silenzio

che nessuno volle ascoltare.

Piangi nei lamenti miei sparsi nel tuono.

Piangi senza che alcuno chieda a te perdono.

Io ti cerco nelle notti di paura,

negli sguardi oltre le mie mura,

negli occhi di chi non sa

nei volti scomparsi oltre la realtà.

Piangi.

Piangi ancora che del lacrimar tuo

mi nutro nel baratro del dubbio,

nel catino delle speranze,

nelle urla delle umane mattanze.

Vorrei smettere il pianto,

vorrei trovare la forza di gridare il mio rimpianto,

vorrei svegliar il mio sonno nell'aurora

vorrei poterti chiamare Madre ancora.

SILENZIO

E fu silenzio.

E fu scuro d'un tratto,

mentre di me cercavo un perduto ritratto.

E fu sentiero d'uomini persi

di colori e profumi dispersi.

Volli esser solo polvere.

Volli esser solo vento.

Volli esser solo acqua.

Volli essere tutto quello che ero

eppur mi spensi e divenni lacrima d'un cero.

VAJONT.

Sorse dallo scurire

ciò che si celava triste nel tragico brunire.

Suoni e grida inondarono la valle.

Voltai lo sguardo all'azzurro

dall'inferno si mosse un lacerante sussurro.

Presi dell'uomo la mano

cercai altre

e l'ardire mio fu vano.

Lentamente m'accasciai sul rivolo di corpi

vidi verità distrutte da cuori storpi,

vidi una piana viva

colma di morti a cui nulla più serviva.

Vidi alzare in cielo le mie braccia

e dentro di me urlai: “Che nessuno mai taccia”

Questo fu il Vajont... il mio Vajont.

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Profilo Autore: Giancarlo Gravili  

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Commenti  

Henry Lee*
+1 # Henry Lee* 11-10-2018 07:48
Chapeau! HL.
Giancarlo Gravili
+1 # Giancarlo Gravili 11-10-2018 12:58
Grazie, ciao!

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