HO FIORI E DI NOTTE INVITO I PIOPPI
(Ospedale di Sesto S.Giovanni, novembre 1965)
La mia ombra è su un altro muro
d'ospedale. Ho fiori e di notte
invito i pioppi e i platani del parco,
alberi di foglie cadute, non gialle,
quasi bianche. Le monache irlandesi
non parlano mai di morte, sembrano
mosse dal vento, non si meravigliano
di essere giovani e gentili: un voto
che si libera nelle preghiere aspre.
Mi sembra di essere un emigrante
che veglia chiuso nelle sue coperte,
tranquillo, per terra. Forse muoio sempre.
Ma ascolto volentieri le parole della vita
che non ho mai inteso, mi fermo
su lunghe ipotesi. Certo non potrò sfuggire;
sarò fedele alla vita e alla morte
nel corpo e nello spirito
in ogni direzione prevista, visibile.
A intervalli qualcosa mi supera
leggera, un tempo paziente,
l'assurda differenza che corre
tra la morte e l'illusione
del battere del cuore.
(SALVATORE QUASIMODO, Dare e avere, 1966)
Non è questo il Quasimodo che preferisco, che riflette sulla sottile differenza tra l’illusione del battere del cuore e la morte, ma mi soccorre quasi per caso la ricorrenza della strage di Capaci (23 maggio 1992) e capisco in che imperativo si può trasformare la poesia di un grande autore, quanto qui quella differenza sia stata soppesata per decidere del senso da dare alla propria esistenza. Ed è un ritrovare un poeta solo apparentemente ripiegato a riflettere su sè stesso ma che forse ci vuole dire qualcosa intorno ad una scelta etica. Forzato? Chissà.
La mia ombra è su un altro muro
d'ospedale. Ho fiori e di notte
invito i pioppi e i platani del parco,
alberi di foglie cadute, non gialle,
quasi bianche.
Il poeta è quasi alla fine della sua vita e si trova ricoverato in un ospedale del Nord, vede sé stesso proiettata su un muro e come unico possedimento qualche fiore che di notte si accompagna a foglie di pioppi e platani, cadute e ormai prive di ogni colore e significato. Nella metafora dunque, la sua vita non è che l’ombra di quella lontana, avvolta di cose morte.
Di che parlano allora le monache irlandesi se non entrano nei primi versi e se quel bianco non è occasione di dolersi? La loro giovinezza prende fiato e gonfia i loro umori diventando preghiera, aspra nel suo credo inavvicinabile.
Le monache irlandesi
non parlano mai di morte, sembrano
mosse dal vento, non si meravigliano
di essere giovani e gentili: un voto
che si libera nelle preghiere aspre.
Eccolo dunque ritornare umano, risorto nelle vesti un emigrante slegato dal resto del mondo, nel suo piccolo guscio di lenzuola, posate per terra, quasi fosse una navicella nello spazio interstellare a cui la morte non fa paura per essere così contigua e presente esistenza, una durata più che un momento.
Mi sembra di essere un emigrante
che veglia chiuso nelle sue coperte,
tranquillo, per terra. Forse muoio sempre.
Ma ascolto volentieri le parole della vita
che non ho mai inteso, mi fermo
su lunghe ipotesi.
Dal suo interno ed in tutta tranquillità si può ascoltare la vita scorrere, come fosse un ruscello di montagna e riflettere sulle sue direttrici, in ogni caso riconducibili a vita e morte, dualità inalienabile tanto dal corpo quanto dallo spirito.
Certo non potrò sfuggire;
sarò fedele alla vita e alla morte
nel corpo e nello spirito
in ogni direzione prevista, visibile.
Ad intervalli però si affaccia il mistero inafferrabile di quella differenza quasi impercettibile se non per un battito, che intercorre tra le due.
A intervalli qualcosa mi supera
leggera, un tempo paziente,
l'assurda differenza che corre
tra la morte e l'illusione
del battere del cuore.
Il poeta è in questo ritrovarsi a discutere con la posterità e magari con quelle stesse suore irlandesi nel frattempo invecchiate che forse adesso formano ombre su un muro. Quell’assurdità rimane ma ne deriva un impegno per ognuno a stare in ascolto della vita e soppesarne le conseguenze consci che morire non è un momento da temere ma un “ MORIRE SEMPRE” in cui ognuno di noi è immerso e da cui è possibile emergere o non emergere con la propria esistenza e condotta.