- Chi sei tu?
- Sono Daniela
- Daniela chi?
- Tua figlia
- Ho una figlia? - mormorava con voce tremante e scoppiava a piangere.
Mi tendeva la mano ormai smagrita. Io osservavo silenziosa quell’ittero che rompeva gli argini dagli occhi e straripava sul viso, uniforme che ormai lo rivestiva, e mi chiedevo se fosse quello il dolore. Allora allungavo la mia e mi avvicinavo.
È dolore questo?
Poi entrava mia sorella. Così piccola, così fragile.
- Papà! - gridava, con la gioia negli occhi, e lui ricominciava a piangere, ma quello era già un pianto diverso.
L’amore mi arrivava addosso tutto e mi investiva. Non era per me quell’amore, era per lei.
È questo il dolore?
Alla fine mia nonna ci faceva uscire dalla stanza, diceva che era l’ora della medicazione, che era più sano che i bambini non fossero presenti. Da quando aveva deciso che il figlio dovesse stare a casa sua, era diventata gelosa di ogni cosa che lo riguardasse.
- Tu non sai curarlo e non sei capace di cucinare -, aveva detto a mia madre, - È per questo che perde peso! -
Non sapeva, quella poveretta, che il figlio aveva un tumore che lo stava accompagnando all’uscita e le sorelle di mio padre avevano intimato a mia madre di non fare nessuna rivelazione che potesse mettere in crisi l’equilibrio emotivo della “vecchia”. Così, davanti a tutti, mia madre era passata per quella che non sapeva accudire il marito.
Noi, io e mia sorella, andavamo ogni giorno a trovarlo, dopo la scuola.
A volte dormiva. Io lo guardavo. Guardavo quelle coperte che si sollevavano e si abbassavano a fatica, lente. Non avevano più la forma di otto mesi prima, quelle coperte. Si erano scarnite attorno a quel corpo che odorava, ogni giorno di più, di malattia. Una malattia che ti imputridisce.
A volte contavo i secondi, il lasso di tempo che si frapponeva tra un’ispirazione e un’espirazione. A volte l’alzarsi e l’abbassarsi si incontravano in un punto imprecisato. Per un attimo pensavo che la coperta non si sarebbe più mossa da quell’altezza.
Era quello il dolore?
Vedere un respiro sofferente con gli occhi dei nove anni?
Di tanto in tanto mia nonna non si accorgeva della mia presenza durante le medicazioni, presa com’era dall’ordine di esecuzione delle operazioni da effettuare: la sacca del catetere veniva staccata e cambiata, quella della fisiologica era controllata sistematicamente e, una volta tolta la garza dall’addome, una fistola di sette centimetri in corrispondenza del pancreas lasciava intravedere l’interno di un corpo ormai alla deriva, una fistola suppurante dalla quale sembrava uscire la vita nel suo color sangue più cupo. Mia nonna ripuliva la piaga teneramente.
Forse albergava proprio lì dentro il dolore?
Io ci infilavo gli occhi, anche se lontana.
A volte sembrava che mi morisse davanti e poi morì sul serio.
La nera Signora arrivò in un giorno di febbraio, come questi.
Io cercai il mio cuore quella mattina, quando mia madre poggiò la fronte sulla mia spalla, affranta. Dicono che faccia male in quei casi. Cercai il dolore nel petto. Non c’era. Non era tra le costole, non nascosto dietro lo sterno, nulla. Dunque, senza dolore, non puoi nemmeno piangere cara mia, mi dicevo. Gli altri, invece, il dolore l’avevano trovato, piangevano tutti! Io no, pensavo solo che non avrei mai più preso schiaffi da nessuno. La sua furia non mi avrebbe più raggiunta. Non avevo lacrime, solo sospiri di sollievo. Avrei voluto chiedergli “perché” in uno di quei giorni.
La morte si è portata via la risposta alla mia domanda.
Io lo so che mi guarda dall’abisso, lo sento quando ci affondo le mani e il vento di ritorno mi porta indietro le sue parole, un’onda d’urto che travolge.
Ogni tanto quell’abisso mi chiama, mentre bevo il mio caffè guardando il mondo dalla finestra. Torno a riavvolgere un nastro ogni volta, in cerca di una traccia, uno straccio di ricordo.
Dove sei, dolore?
Mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta senza rotelle a cinque anni. Era una vergogna che una signorina non sapesse farlo.
Mio padre mi ha insegnato a nuotare sebbene lui avesse una gran paura del mare.
Mio padre mi ha insegnato la profonda solitudine.
- Se non sai abitarla ti soffoca, è come affogare in mare aperto. Impara a gestire la paura più grande, quella di restare sola -.
Una grande salvezza, in certi casi.
Quando ero piccola mio padre mi portava all’aeroporto.
Lui l’aereo lo prendeva spesso per venire a Milano da Napoli, dove vivevamo. A quei tempi il computer muoveva i primi passi e i corsi di aggiornamento si rendevano fondamentali per gli avanzamenti di carriera. Piaceva ad entrambi il momento in cui le ruote si staccano dal suolo. Senti un improvviso vuoto d’aria nello stomaco e, per un attimo, ti alzi in volo.
Io mi alzavo sulle punte e sentivo che lo faceva anche lui. Lo avvertivo dallo scatto del braccio che mi tirava su, insieme alla mia mano nella sua.
Non ho mai preso un aereo ma continuo, di tanto in tanto, a frequentare le zone aeroportuali.
La scorsa mattina sono andata nei pressi di Linate a vedere le partenze.
C’è un prato a pochi chilometri da casa mia dove si possono osservare bene anche gli arrivi. Linate è così grande! Davanti a me c’era una bambina. Avrà avuto sei anni.
- Arriva papà?
- Sì, guarda, adesso fa la curva e poi prende velocità.
Quando l’aereo si è staccato, i loro talloni si sono alzati e la mano del padre teneva stretta quella più piccola.
Guarda questi due, mi sono detta, quasi cercando somiglianze con un mio vissuto ormai passato. Mi sono avvicinata a guardare i loro volti che si alzavano in volo, poi la mia attenzione si è riversata su quelle mani, la piccola che si affida alla più grande.
Quanto poco può bastare per sentirsi felici!
Ho guardato la mia di mano.
Forse, per tutto questo tempo, ho cercato il dolore nei posti sbagliati.
Commenti
E purtroppo era un padre che discendeva da padri più severi e che forse, se fosse vissuto di più, si sarebbe ammorbidito; o forse sarebbe rimasto nei panni del padre severo.
Poi ci ha pensato la vita, a stroncare la giostra e chissà se adesso tuo padre è di nuovo sulla Terra, per imparare dai suoi sbagli.
Qui, posso assicurarti di non averlo visto ma posso chiedere ai superiori se l'hanno già rispedito giù, o su qualche altro pianeta o... se sta facendo ancora corsi di aggiornamento professionale.. . perché padri non si nasce, si diventa. E... non per giustificarlo; ma forse non era stato amato abbastanza da imparare ad amare... E se non ti riconosceva era perché probabilmente lo imbottivano di oppio...
In quanto al racconto ti dico che mi è piaciuto davvero tanto. Ben scritto. Con una buona dose di emozioni e considerazioni.
ciao core
Sono contenta che il mio racconto ti sia piaciuto. A me è servito tanto. Non sparire più ????