C’è sempre un giudizio,
una sentenza sputata tra i denti.
Mio padre mi guarda e vede
un muro crollato,
un cantiere mai finito.
Mia madre conta le rughe,
le notti in bianco,
ogni lacrima come un debito
che non salderò mai.
Si fa autunno:
l'uno mi legge negli occhi
come un giornale di cronaca nera:
fallimento a caratteri cubitali,
un titolo senza nemmeno un sottotitolo;
ella scuote la testa,
come un albero spoglio
d'una sempreverde.
Mi guardano
come si guarda un televisore rotto:
con rabbia,
come la sorpresa del palinsesto annunciato,
dove trasmettono quello che non si vuol vedere
eppure lo si fa.
Sono il figlio del rimorso,
della delusione incrostata sui piatti
che non ho lavato.
Mi chiamano fallito,
con lo stesso tono con cui chiamavano
il gatto quando non tornava a casa.
Ma non sanno delle notti
in cui parlo ai fantasmi
delle loro aspettative,
dei loro sogni riciclati su di me
come vestiti di un manichino maggiore
che non contraddice.
Ho camminato su marciapiedi
che loro non vedranno mai,
ho bevuto nei bar dove i santi
divertono i dannati.
Non mi serve un lieto fine
da mostrare al mondo,
non voglio redimermi
nelle cene degli arrivati imbastite di ipocrisie.
Lascerò il finale aperto,
un punto sospeso
che loro non sapranno mai come chiudere.
Loro cercano in me
un peso, un ruolo,
un posto al tavolo delle certezze,
ma io porto una maschera diversa:
non quella del sacrificio tangibile,
ma quella del vuoto che mi divora,
un mestiere fatto di assenze.
Mi accusano di non costruire,
di non alzare muri che durano,
ma nella mia epoca i mattoni
sono pensieri che si disfano all’alba.
Per loro sarò sempre un fallito,
perché non sanno che nel mio cantiere
le fondamenta si scavano nel silenzio,
e ogni parola è un chiodo piantato
nella carne di un futuro
a cui vietano di urlare.
una sentenza sputata tra i denti.
Mio padre mi guarda e vede
un muro crollato,
un cantiere mai finito.
Mia madre conta le rughe,
le notti in bianco,
ogni lacrima come un debito
che non salderò mai.
Si fa autunno:
l'uno mi legge negli occhi
come un giornale di cronaca nera:
fallimento a caratteri cubitali,
un titolo senza nemmeno un sottotitolo;
ella scuote la testa,
come un albero spoglio
d'una sempreverde.
Mi guardano
come si guarda un televisore rotto:
con rabbia,
come la sorpresa del palinsesto annunciato,
dove trasmettono quello che non si vuol vedere
eppure lo si fa.
Sono il figlio del rimorso,
della delusione incrostata sui piatti
che non ho lavato.
Mi chiamano fallito,
con lo stesso tono con cui chiamavano
il gatto quando non tornava a casa.
Ma non sanno delle notti
in cui parlo ai fantasmi
delle loro aspettative,
dei loro sogni riciclati su di me
come vestiti di un manichino maggiore
che non contraddice.
Ho camminato su marciapiedi
che loro non vedranno mai,
ho bevuto nei bar dove i santi
divertono i dannati.
Non mi serve un lieto fine
da mostrare al mondo,
non voglio redimermi
nelle cene degli arrivati imbastite di ipocrisie.
Lascerò il finale aperto,
un punto sospeso
che loro non sapranno mai come chiudere.
Loro cercano in me
un peso, un ruolo,
un posto al tavolo delle certezze,
ma io porto una maschera diversa:
non quella del sacrificio tangibile,
ma quella del vuoto che mi divora,
un mestiere fatto di assenze.
Mi accusano di non costruire,
di non alzare muri che durano,
ma nella mia epoca i mattoni
sono pensieri che si disfano all’alba.
Per loro sarò sempre un fallito,
perché non sanno che nel mio cantiere
le fondamenta si scavano nel silenzio,
e ogni parola è un chiodo piantato
nella carne di un futuro
a cui vietano di urlare.