Nacqui. E forse già da quel momento fui come sono oggi: sconclusionato. Mi piacerebbe spiegarvelo bene raccontandovi di come arrivai alle prime poppate, ai primi sorrisi, ai primi versi, ai primi passi, alle prime parole… ma in realtà non ricordo nulla dei miei primi mesi, i miei primi ricordi sufficientemente nitidi risalgono al periodo delle suore, l’asilo con tanti altri bambini simili a me (più o meno, non proprio uguali) controllati a vista da questi autoritari guardiani vestiti di nero che erano le suore. Lì disegnavamo, lì cantavamo, lì imparavamo filastrocche e tante, tante preghiere per rabbonire quei mostri da horror che erano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma soprattutto lì giocavamo e bisticciavamo. A dire il vero io non bisticciavo molto, le suore dicevano che ero un bambino bravo, un modello da seguire. Seguire per andare poi chissà dove?! Non è che abbia mai avuto l’indole del condottiero che traccia la strada per sé e per gli altri! Però ero un osservatore abbastanza attento e guardando bene gli altri bambini avevo capito che si dividevano in due categorie: i bambini propriamente detti, come me, e le bambine, che erano diverse, più interessanti, più belline, più gentili… mi piacevano! Un po’ tutte, ma una biondina in particolare mi affascinava tanto che pensavo spesso a lei anche quando non ero all’asilo, persino a volte la sognavo! La chiameremo Filomena (giusto per darle un nome che non c'entra nulla con il suo nome vero). Filomena aveva begli occhi, bei capelli, bella bocca, bel nasino, belle guance, bella faccia, bella testa, bel corpo, tutta bella! Educata, gentile, intelligente! La elessi quindi a mia Principessa. Sì, mi piaceva e la sognavo, ma cercare di parlarle mi intimidiva un po’; io ero un genio della scienza, avevo ormai capito che le bambine poi si trasformano, come vedevamo sui libri che i bruchi si trasformano in farfalle, così avevo capito che le bambine si trasformano e quando passa il tempo entrano in un’altra categoria. Anzi due. Beh, abbiate pietà, non ero ancora approdato all’università e quindi un po’ di confusione sulla fisiologia umana ce l’avevo, anche sull’anatomia non è che fossi certo al 100%, che io avevo ancora fratellini solo maschi. Però che le bambine non avevano il pisellino lo sapevo già! Non sapevo il perché, ma sapevo che quella è la cosa che più distingueva i bambini dalle bambine. Oltre al fatto che le bambine erano più belle e più gentili. Lo sapevo perché le suore avevano grande fiducia in me e quindi se stavano troppo indaffarate ed a qualcuno scappava la pipì, delegavano me per accompagnare in bagno e starci attento, sia che fossero bambini, sia che fossero bambine! Ero l’unico jolly, altri maschietti che accompagnassero in bagno una femminuccia in emergenza non ce n’erano. Ma dicevo del mio aver capito che poi le bambine si trasformano, quindi diventano o mamme o nonne! Or/or! Le due categorie erano ai miei occhi nettamente separate, le mamme erano belle, dolci, protettive, le nonne erano brutte, antipatiche e incomprensibili. Questo perché la mia mamma, giovane e bella, era sempre disponibile, capace di aiutare me e i fratellini, parlava bene, in italiano, con toni rassicuranti. La nonna invece, che viveva di fianco, era rude, parlava un dialetto nient'affatto forbito, era sempre nervosa, ci sgridava e poi a me non piaceva la sua abitudine di prendere, ogni volta che la gatta bianca sfornava una nuova cucciolata nel giardino, i gattini neonati, sbatterli con forza contro un muro e poi gettarli nella spazzatura! Mi veniva da piangere. Così mi ritrovavo a pregare talvolta il misterioso Signore delle suore, chiedendogli (perché lui poteva tutto, ce lo spiegavano sempre) di fare in modo che Filomena crescendo si trasformasse in una mamma e non in una nonna! Sperando anche che non le crescessero però le tette (che le mamme e le nonne le avevano, a volte specialmente le mamme decisamente ingombranti ed a me, diversamente da altri bambini, quelle grosse mongolfiere sul petto non piacevano). Sperando soprattutto che stesse sempre con me! Mi piaceva davvero, Ma non glielo sapevo dire. Arrivai a fare a botte con un altro bambino per lei, perché la infastidiva, fino a fargli sanguinare il muso, e le suore rincararono la dose quando lui le chiamò piangendo, perché sostenevano che se io, proprio io, lo avevo picchiato, allora sicuramente lo avevo fatto per un motivo giusto, per punirlo di qualche marachella grave. Invece l’avevo fatto solo per gelosia, ma non lo dissi alle suore né a Filomena. Filomena non seppe mai che animava i miei sogni, l’asilo finì perché diventando grandi passammo alle scuole “vere” e non la vidi mai più. Fu la prima della serie di stelline che entravano nel mio cuore senza che la mia bocca trovasse il coraggio di dire nulla. Del resto, com’ero (e son rimasto) inconcludente in amore, sono inconcludente anche in tutto il resto.
Troppo insicuro per impegnarmi sufficientemente in qualsiasi ambito.
Son sempre stato così nelle relazioni interpersonali, ma anche nel rapportarmi con il mondo del gioco¹, dello studio², del lavoro³… qualcosa vorrà dire se non mi sono laureato!
L’insicurezza e la sconclusionatezza mi hanno accompagnato in tutte le tappe della mia vita, specialmente in quelle più importanti, impedendomi di portare a felice conclusione alcunché.
Diventato grande e cominciata la scuola elementare, infatti, ricordo ancora, dopo quasi una cinquantina d’anni, quella mattina in cui io timido bimbo tra gli altri nuovi compagni
¹: nota
²: nota
³: nota
21/06/2024
1 - Personaggi.
Per proteggere le identità reali battezziamo, oltre a ioffa, due personaggi:
PIT è docente di italiano e latino nel triennio del liceo,
PIF è docente di filosofia e storia;
PIF è convintamente ateo, profondamente comunista, in ottimo rapporto con me, con reciproca profonda stima, sempre disponibile al dialogo e convinto dell’utilità degli studi e della cultura per chiunque; è anche amico di David Maria Turoldo;
PIT(bull) è, volendone semplificare la descrizione, ignorante, arrogante, classista con farcitura di bigottismo e fatalismo, conosce mnemonicamente le lezioni di italiano e latino che impartisce senza entusiasmare nessuno; i suoi criteri di valutazione vertono su chi sia lo studente, non certo su cosa lo stesso risponde nelle interrogazioni o cosa scrive nei compiti; il rapporto con me, immagino sia intuibile, è pessimo, dato che vengo a scuola con la corriera dal villaggetto di contadinacci e son pure figlio di comunista, credente sì (mio padre, non io), ma pur sempre comunista.
2 - Qualche aneddoto del passato remoto per inquadrare meglio PIT.
Solitamente nelle interrogazioni, di italiano molto più che di latino, oltre a rispondere sempre correttamente a tutte le domande che mi faceva PIT, se c’era occasione andavo oltre, magari nel parlare di qualche autore, contestualizzandolo nella società in cui viveva ed analizzando le sue opere riferendole a quella realtà, per esempio, o citando i rapporti che avesse con altri autori o personaggi notabili dell’epoca, oppure mi divertivo a scavare nel commento di un testo aggiungendo considerazioni ulteriori rispetto a quelle già presenti nei libri che usavamo; beh, rimase alla storia della nostra classe in una di quelle occasioni, dopo che aggiunsi considerazioni approfondite ad un’analisi di un testo poetico durante un’interrogazione, un suo sbottare in:
«ioffa¹, io non capisco perché ogni volta ti sforzi per farmi fare brutta figura!»
Restai tra il sorpreso, il risentito e lo spaventato, ma fu questione di pochi secondi e poi con una serenità inaspettata risposi pacato:
«Prof, le giuro che non mi sforzo per niente in tal senso»
e mentre tornavo a preoccuparmi per aver osato rispondere in quel modo io che tra l’altro ero esageratamente timido, vidi l’intera classe ridere ma a quanto pare PIT non colse il sarcasmo di quella risposta ed andò oltre nell’interrogazione semplicemente invitandomi ad attenermi a quello che c’era scritto sul libro.
Sempre per capire quanto brillante fosse PIT, un altro aneddoto che coinvolge sia PIT sia PIF: eravamo più o meno agli inizi del 2° quadrimestre del 4° anno, PIT aveva adottato come testi per la letteratura italiana dei volumacci (erano più di uno per anno) pesanti e costosi ma davvero ben fatti, ricchi, interessanti; ci dissero che venivano impiegati anche in ambito universitario, erano mica “robetta da liceo”. Per questa scelta aveva molto orgoglio ed in effetti quei libri sviluppavano commenti alle opere da diversi punti di vista tenendo conto di diverse ideologie, delle relazioni tra autori, opere e contesto socioeconomicopolitico; a me piacevano molto (qualcuno in classe li odiava non tanto per il prezzo esagerato quanto per il loro essere macigni pesanti sia per gli zaini sia per lo studio); solo che un giorno PIF si complimentò con PIT per la scelta di quei libri lasciandosi scappare che “non chiudono ad un’analisi di approccio anche marxista nello studio di autori e società”; non l’avesse mai detto: PIT scandalizzata ci dice che non utilizzeremo più da quel momento in poi quei libri ma che dovevamo procurarci (a metà del 4° anno?) un unico testo molto più compatto, economico e semplice (che era di impronta conservatrice nei pochi commenti ai testi, molto sommario nel presentare gli autori e non contestualizzava un bel niente).
¹: ovviamente non disse “ioffa” ma usò il mio vero cognome.
3 - Aneddoto più prossimo, prologo dell’incontro.
Correggendo un compito in classe di italiano, PIT umilia alcuni studenti parsi meno brillanti nella stesura del tema, per la scrittura goffa e qualcuno addirittura con qualche errore grammaticale serio (per un 4° liceo, non certo a livelli di analfabetismo), dichiarandoli infine degli “esseri del tutto inutili alla società ed alla vita” (erano studenti che disprezzava da tutti i punti di vista, nessuno tra loro aveva genitori “illustri” o ricchi).
Nel frattempo PIF con la collaborazione del preside sta organizzando un incontro degli studenti del triennio con padre David Maria Turoldo per parlare di letteratura ed in particolare di poesia; PIT ne approfitta per cercare di farsi notare dal venturo illustre ospite e ci impone, un paio di giorni prima del suo arrivo, di scrivere ciascuno una poesia, che avrebbe poi scelto le più belle da leggere al poeta quando sarebbe entrato da noi; io ne approfitto per comporre un sonetto in cui, con metafore attinenti alla fisica e all’elettronica (ero appassionato e preparato nel comparto tecnico/scientifico) mostro che tutti i membri di un sistema, ossia fuor di metafora tutti gli studenti della nostra classe, hanno dignità e, svolgendo quanto richiesto dal proprio ruolo e consentito dalle singole capacità, risultano tutti utili se non addirittura indispensabili per il buon funzionamento del sistema (o della classe); per quanto possiate non crederci, dal punto di vista formale il sonetto è perfetto, uno schema rime classico ABBA ABBA CDC DCD in una metrica precisa di endecasillabi canonici a maiore, ho scelto la variante a maiore dell’endecasillabo per aumentare la marzialità dell’esposizione; beh, quando l’ha letta, l’ha bollata come porcheria (ma non perché ne abbia capito il significato criticante l’umiliazione che aveva fatto ai miei compagni, più semplicemente perché manca l’associazione cuore/amore o verginesanta/chiesasivanta) e menomale che su quelle poesie non mette voti in registro!
4 - L’incontro.
Però il giorno tanto atteso quando finalmente Turoldo entra nella nostra classe, dopo un pochino di dibattito PIT se ne esce tronfiamente con «Ho insegnato ai ragazzi a scrivere poesie, gliene faccio leggere una a caso… ioffa² vieni in cattedra, magari leggiamo la tua»; la leggo e a padre Turoldo piace molto, ne comprende anche benissimo il significato e lo condivide, ne parliamo, senza ovviamente svelargli l’antefatto dell’umiliazione subita pochi giorni prima dai miei compagni, poi esprime apprezzamenti anche sulla forma oltre al significato, e lì PIT si inorgoglisce ripetendo (ed era falsissimo, ci aveva solo imposto di scriverne una ciascuno) che ci ha insegnato a comporre le poesie in maniera profonda e corretta; non scorderò mai il mezzo sorriso con cui Turoldo ha reagito guardandomi, avendo capito che PIT è solo un pavone ignorante esibizionista ed arrogante; poi continua a parlare alla classe portando avanti il tema del mio sonetto.
E niente, a parte la soddisfazione di una rivalsa sul pessimo giudizio che ne aveva espresso PIT, quella giornata e quell’apprezzamento che di un mio sonetto stava facendo un vero poeta mi emozionano tantissimo!
²: vedere la nota ¹ del 2° paragrafo.
5 - Epilogo.
PIT il giorno dopo troverà modo di ribadirmi che ha scelto di far leggere il mio sonetto e non altre poesie più belle scritte dai miei compagni perché non voleva pavoneggiarsi troppo con Turoldo nella sua capacità di insegnare ad una classe a comporre poesie, quindi ha preferito proporgli un lavoro mediocre, non le migliori che la classe ha composto! Son certo che, nonostante le spiegazioni fatte da Turoldo commentandomi, PIT non abbia comunque capito il significato del mio sonetto.
02-05/05/2024
Ero bravo da piccolo a fare castelli di sabbia, ne facevo sempre, non mi venivano affatto male, ma li innalzavo sempre vicino alla battigia sicché il mare lentamente ma inesorabilmente li erodeva, partendo dal basso e facendo man mano crollare le parti superiori per poi portarsele via come aveva già fatto con il basamento.
Una ventina di anni fa invece ho provato a farne uno davvero importante, grande, destinato nel mio candido progetto a sfidare i secoli, del resto sabbia ce n’era e sembrava illimitata, carriole e palette potevo prenderne a profusione, tempo ne avevo quanto ne volevo o almeno quanto pensavo ne bastasse e poi l’esperienza mi avrebbe dovuto insegnare che van fatti abbastanza lontano dal mare, anche nascondendoci dentro qualche rinforzo, che so, legni, sassi… ma niente, come uno stupido l’ho fatto troppo grande, troppo fragile e come al solito troppo vicino al mare: è bastata la prima onda seria a far crollare tutto, poi le onde successive impietose hanno anche livellato le sabbiose macerie e rapito senza possibilità di riscatto secchielli, carriole e palette, trascinandole in lontani abissi.
Pochi anni fa ho tentato di riprendere in mano i progetti più vecchi ed ambiziosi per ricostruire, ma sul limitare della battigia, che senza più carriole anche volendo non me ne sarei potuto allontanare, ed a mani nude perché secchielli e palette non ne ho più e non sono più in grado di acquistarne. Il castello cresceva lentamente, tra una manata e l’altra di sabbia bagnata dovevo fermarmi a riprendere fiato perché io ormai son vecchio -prematuramente vecchio- e acciaccato; il mare invece no, non invecchia mai ed ha sempre tutta l’energia che vuole, così di quest’ultimo castello non son riuscito a completare neanche le fondamenta: porto la sabbia nei palmi delle mani unite, la compatto un po’ senza crederci più di tanto, perché so che appena mi giro per prendere un’altra manata di sabbia bagnata, l’onda arriva, mi supera sbeffeggiando e lava via quella che avevo appena messo per tentare di innalzare un nuovo piccolo castello, o almeno una stabile torretta difensiva. Una scena ridicola: continuo a prendere la sabbia bagnata e portarla al limite della battigia mentre le onde continuano a raggiungerla e riportarsela indietro, finché… finché… pausa, un attimo, respiro a polmoni più o meno pieni per placare l’affanno, mentre mi giro per cogliere ancora sabbia vedo una cosa sbattuta dall’ultima onda sulla collinetta di sabbia slavata del mio malfatto castelletto… cos’è?
Qualcosa di marrone… sapendo quanto mi ami la fortuna, se mi piove addosso qualcosa di marrone una mezza idea di cosa possa essere ce l’ho subito! Però no, non è quella, è qualcosa di più rigido, è vetro, è una bottiglia… è una bottiglia di vino, ma ovviamente di quelle più economiche da discount, mica roba gran riserva, ed ovviamente è vuot… no, aspetta, qualcosa dentro c’è, vuoi vedere che è la mappa per l’isola del tesoro? O un messaggio della mia amata sirena.
Insomma, dentro la bottiglia c’è un foglietto arrotolato! Basta con questa inutile corsa a tentar di fare un inutile castello di inutile sabbia, vediamo cosa mi offre il destino: prendo la bottiglia, mi siedo sulla spiaggia che all’improvviso m’appare deserta, non ci sono più bambini che ridacchiano guardando come sono sfigato con il mio castello rovinante mentre i loro vengono su e magari per qualche giorno o per qualche anno resistono pure; non c’è più nessuno, solo io e la mia bottiglia che con fatica, ansimando, riesco a stappare; il tappo di sughero lo vado a gettare nel cestino perché una coscienza ce l’avrei, in un altro cestino lascio la bottiglia vuota dopo aver estratto il mitico foglietto.
Ora lo srotolo con gli occhi sgranati e come al solito pieni di speranza senza aver avuto ancora nessuna garanzia. Cos’è? No… nessuna mappa… è scritto fitto fitto… non è un manoscritto sirenico con cuoricini disegnati… ma che diavolo è?
Come sarebbe a dire notifica? Chi? Cosa? Porco Giuda! È un’intimazione a pagare in fretta!
L’agenzia delle entrate mi fa notare che non ho mai pagato l’IMU per tutti i castelli distrutti dalla mia infanzia ad oggi, me li ha conteggiati tutti, anche quelli che non sto riuscendo a costruirmi in questi ultimi anni, e per tutti ci sono aggiunte anche tasse extra per le mancate autorizzazioni, concessioni, permessi, quelle robe lì e poi tanti, tanti interessi, a tassi che sarebbero di usura ma non posso certo pagare alcun avvocato per contestare alcunché. Sogni infranti, castelli spazzati via ed in più lo stato che richiede tasse arretrate di cui non sapevo nulla, oltre ovviamente i vecchi fornitori di secchielli e palette che ancora aspettano di essere saldati. Tasse esagerate per un nulla scivolato tra le dita e lavato via dal mare. Accidenti alle tasse, ai foglietti, ai messaggi in bottiglia, alle bottiglie di vino e a chi ancora non mi ha tagliato le mani ogni volta che mi sono azzardato a prendere sabbia per fare un nuovo castello!
19/04/2024
Un insolito regalo di Natale in un paese di mare.
Siamo nell'anno 1956, mio nipote Fausto ha otto anni, vale a dire che è nato il 13 Agosto 1948, in pratica il ragazzo lo abbiamo tirato su io e mia moglie Linda. Mio figlio Augusto lavora nel settore chimico, ha un ruolo di grande responsabilità in un'azienda che produce fibre sintetiche come il Nylon; mia nuora è maestra e insegna in una scuola elementare che dista una quindicina di chilometri dal paese dove viviamo. Linda, mia moglie fin che ha potuto ha lavorato come commessa in un negozio di abbigliamento per bambini, poi date le circostanze avverse della vita ha dovuto licenziarsi e trasferirsi nel paese dove tuttora viviamo. Non si è mai risparmiata, è andata a servizio da famiglie riuscendo a implementare il mio stipendio di operaio. Mio nipote è un bambino che non ha mai preteso nulla, snello e allo stesso tempo fragile, sempre loquace e curioso, ha voglia di imparare e apprende senza sforzo. Con mia moglie lo portiamo ai giardini, al campetto, lo accompagniamo a scuola, fa con la nonna una parte di compiti che gli sono stati assegnati. I nostri finiscono quando mia nuora ritorna dal lavoro. Con Linda ci accorgiamo che il carattere di nostro nipote è cambiato. È sempre stato un bambino esuberante, senza nessuna paura, ora cammina per strada guardandosi spesso intorno con timore, quegli occhi sempre vivaci che annunciano il sorriso ora li vedo impauriti, spenti. Nel pomeriggio, gli chiedo se andiamo a fare un giro in bicicletta. - No nonno, ho da fare i compiti! Di solito ti ci metti più tardi, una parte la fai con la nonna e l'altra a casa con la mamma. Che cosa è successo? Perché sei così triste? - Ho scoperto che sotto l'albero di Natale i doni li mettete voi grandi, non c'è nessun Babbo Natale, nessun Gesù bambino. Non vale! "Hai ragione piccolo mio, non vale, ma tu pensa come sarebbero stati i tuoi Natali se ti avessimo svelato la verità, sarebbe stato un giorno come tutti gli altri e questo non è giusto. Tutti gli anni festeggiamo il tuo compleanno che è ad Agosto, il 25 Dicembre festeggiamo il compleanno di Gesù, non importa se hai scoperto la verità e ne sei rimasto deluso, ti deve importare dell'amore che ricevi dagli altri e accettare il fatto che i doni che trovi sotto l'albero sono stati fatti con il cuore. Ora dimmi, che cosa vorresti trovare sotto l'albero il giorno di Natale?" - La neve nonno. La semplicità di questa richiesta mi fa capire che Fausto ha compreso quello che poco prima gli ho detto. “Perché la neve?” - Perché Gesù è nato al freddo e al gelo. In un momento di tenerezza ho avuto la sconsideratezza di prometterla al mio nipotino per il giorno di Natale.
- Davvero nonno! Grazie. Che bel regalo, il più bello che abbia mai ricevuto.
Siamo nel mese di Novembre, il tempo continua a essere bello, e pure la temperatura non scende mai sotto gli otto gradi, e questo diventa per me un grande problema. Fausto ha una cieca fiducia in me e io penso che lo deluderò proprio il giorno di Natale. Tutte le sere accendo la radio, ascolto le previsioni del tempo, nessuna novità, regna un'alta pressione, le temperature variano dai tre gradi della notte, a dodici, il giorno. La neve è una chimera in un paese di mare. Mi domando, che cavolo di tradizione è quella della neve nel giorno di Natale? Il Vangelo stesso non narra che il giorno di Natale a Betlemme venisse giù la neve. Perché queste riflessioni non le ho fatte prima di promettere? Se avessi riflettuto che a causa del gelo, nel mondo, molte persone vivono di stenti. Desiderare il gelo è egoistico.
E’ l’antivigilia di Natale, la temperatura è scesa di botto, il vento di terra è pungente, il mare lievemente increspato. Le luminarie sono accese, il campanile della chiesa illuminato. La sera Fausto è con noi, mio figlio e mia nuora si sono ritrovati con gli amici a cena. Fausto e Linda sono in sala impegnati a costruire con i Lego un’astronave, io alla finestra. Non può essere vero! Sofficissimi puntini bianchi sospesi in aria che ben presto prendono la forma di fiocchi. “Fausto! Fausto! Vieni a vedere!” - Linda: non gridare così forte, alza il sedere e veni in sala. “No! Non posso! Venite a vedere! Arrivano. - Linda:- cosa c'è da vedere di così importante? “Vieni Fausto, guarda fuori.” La neve! Eccola. Evviva! Grazie nonno! Perché non si ferma a terra? “Devi avere pazienza, ogni cosa a suo tempo. Per fermarsi deve scendere la temperatura, domani mattina è tutto bianco. Ora vai a cambiarti, resto io di guardia.” In pigiama e pantofole mi raggiunge in cucina. Nonno, non vado a letto, resto qua con te. “Facciamo così, ancora una mezzora e poi fili a letto sennò chi la sente la nonna.” In quella mezzora, Fausto vede la neve fermarsi a terra. Esulta come se avesse segnato un goal. “Ora a letto, domani mattina quando ti svegli ti attende un spettacolo.” E’ il mattino della vigilia di Natale, nella notte è scesa un’abbondante nevicata. Fausto è al caldo sotto le coperte, Linda arriva in cucina e rimane attaccata alla finestra a guardare il manto di neve che nasconde l’asfalto e i marciapiedi. “Come facevi a sapere che nevicava?” Mi stampa un bacio sulla guancia. “Preparo la colazione” Ritorna ed esclama: “nevica! Che fiocchi vengono giù, vado a svegliare Fausto, non voglio che si perda questa nevicata.” Entrano in cucina e sono subito davanti ai vetri.
Nonno nevica! Sembrano farfalle questi fiocchi di neve.
A furia di esclamare il suo stupore e la sua contentezza, il fiato appanna i vetri.
Siamo tutti e tre al tavolo a fare colazione, Fausto con la bocca piena: nonni, non ho mai camminato sopra la neve. “Cosa ne dici se andiamo a calpestarla un poco?” Si nonno! Come sono contento! Dai, andiamo. Lidia:- ma che andiamo e andiamo; a prendere un accidente andate voi due! Tu preparati.
Mi vesto per uscire con mio nipote, lei la vedo andare in dispensa, tira fuori un paio di scarponcini, non so da dove siano saltati fuori; li fa calzare a mio nipote. - Sono della tua misura. Lo aiuta a vestirsi. Mi sono imbardato per bene, Fausto indossa il cappottino e si sistema il cappellino sulla testa. “Fausto, usciamo che è l’ora giusta.” - Fermatevi! Tu sei più piccolo di lui. Dalle sue mani come per magia escono due manopole, sono di pelle di pecora e all’interno rivestite interamente di pelo. - Tieni Fausto e tira tanta neve a tuo nonno. Mi raccomando, vieni a casa un po prima del solito perché alle due tuo figlio e tua nuora vengono a prenderlo. Usciamo di casa, Nonno, sembra di camminare sullo zucchero! Guarda nonno, le nostre orme. Raggiungiamo la spiaggia, non l’avevo mai vista così. Le barche sono coperte di quella coltre bianca. Poco più avanti un gruppetto di ragazzini, sono amici di mio nipote. Nonno, io vado. “Vai e divertiti, io sono nei paraggi.” Lo osservo che si allontana e si butta nella mischia. Si tirano l’un l’altro palle di neve. Sono spensierati, felici. Il silenzio è interrotto dalle urla dei ragazzi, il mare è piatto, lo sciabordio assente. Arrivano altri nonni e alcuni genitori con i quali c’è un buon rapporto di amicizia, si comincia a parlare di questo evento inusuale dalle nostre parti e il tempo scorre veloce. Sono già le undici, chiamo mio nipote che subito mi raggiunge, “è l’ora, noi dobbiamo andare.” Ancora cinque minuti, nonno, ti prego! “Li conosco bene i tuoi cinque minuti. Lo sai birbante che poi la colpa è mia.” Mi spiace doverlo far abbandonare la compagnia in questo giorno speciale, “che siano solo cinque i minuti”, grazie nonno. I minuti son diventati quindici e contando i dieci minuti e oltre di strada per tornare a casa, sono in ritardo di una mezzora e so a cosa vado incontro. Non è come pensavo, Lidia chiede subito al nipote se si è divertito, a me non rivolge parola. La vedo che con lo sguardo guarda spesso in direzione dell’orologio appeso alla parete, poi, - è l’ora di un bel bagno, è da stamattina che ho acceso il boiler, acqua calda per tutti e due, prima vai tu Fausto, se hai bisogno chiama la nonna! Fausto ha finito di farsi il bagno e Linda lo avvolge nell’asciugamano. Ora è il mio turno.
Non ho il tempo di entrare in bagno che mio nipote lancia due starnuti di fila e mia moglie con il suo “io lo sapevo” mi fa sentire maledettamente in colpa. A pranzo non sono di buon umore, non era mia intenzione far prendere il raffreddore a mio nipote, spilucco a malapena qualcosa mentre Fausto si rimpinza dei gnocchi al pesto che ha preparato Linda. Nessun starnuto, nessuna goccia al naso, solo il movimento delle mascelle, intervallato dalle sue continue domande, non a tutte so dare la corretta risposta, me la cavo con quello che mi costa più difficile ammettere: “non lo so”. Il malumore lascia ben presto spazio al buon umore nel vedere mio nipote felice e senza conseguenze dal mattino passato al gelo sulla spiaggia. Nel primo pomeriggio mio figlio e mia nuora arrivano a prenderlo, trascorre il pomeriggio della vigilia con i suoi genitori.
Poco dopo che sono usciti, mi sdraio sul divano per la pennichella pomeridiana. Dopo un’ora mi sveglio, Linda è in cucina alle prese con i fornelli per il pranzo di Natale. Scosto le tende della cucina e vedo le nuvole cariche di neve che dai monti si spostano verso il mare. “Linda, esco, vado al bar a fare due chiacchiere, quando ritorno ti racconto le novità. E’ sollevata, quando cucina meno mi ha tra i piedi meglio è. Mio nipote è stato adottato all’età sei mesi, il fatto in paese è stato fonte di tante chiacchiere. Linda, pativa quella situazione e l chi e persone che giudicavano non erano poche. Nonostante gli anni passati ancora oggi c’è chi vuole infierire. E pure in questo giorno di attesa. Lo sento distintamente, quando entro nel bar, “lo chiama nipote ma non è mica il suo, e l’importanza che si dà quando sono assieme, manco gli somiglia.” Osservo chi cerca di fargli interrompere la sua filippica sentendosi in imbarazzo, lo leggo dal linguaggio del corpo. Quando il tizio si accorge della mia presenza è tardi, fa come se niente fosse, cambia argomento, nonostante che, oramai nessuno lo ascolti. Vado al banco e osservo molte persone in imbarazzo per essere state colte ad ascoltare lo sproloquio del tizio. Si avvicina un amico al banco, “hai cambiato colore non farci caso è cattivo”, - non è pericoloso è un imbecille patentato. Vuole sempre avere ragione su tutto e rompe i coglioni parlando a vanvera di tutti quelli che non la pensano come lui a cominciare dai Rumeni che lavorano in cantiere all’ambulante negro che arriva nell’estate. Forse in questo paese c’è bisogno veramente di più persone cattive che imbecilli. Nel sentirmi parlare in quella maniera si avvicina un altro amico che frequenta assiduamente la parrocchia, “cerca di non dire scemenze pure tu, manca la bontà cristiana.” - Lascia perdere che quello è un pezzo del problema, non è certo la soluzione.
Quando si va a confessare, l’idiota, riceve sempre l’assoluzione e si sente in diritto di manifestare apertamente la sua tracotanza. - Andiamo a fare una partita a carte, che è meglio, e spero che non venga d’intorno a commentare il gioco.
Ci mettiamo al tavolino per giocare a carte. Con soddisfazione mi accorgo che il tizio ha preso l’uscita. Mi esce un sospiro e mi godo la pace ritrovata. Dura poco. Saranno passati dieci minuti ed eccolo entrare, si posiziona nel circolo di persone che osservano la partita. Fino a un attimo prima io e il mio compagno stavamo conducendo alla grande. Mi ribolle il sangue a sentire le sue esternazioni, ho perso la concentrazione e non riesco a giocare, il punteggio si capovolge a favore dei nostri avversari. La partita è persa, nell’ultima mano commetto una serie di errori che nemmeno un principiante li fa. Quando sento esclamare, “è più bravo quando gioca con il nipote sbagliato” - mi alzo di scatto dalla sedia e gli rifilo uno schiaffo violento in viso con il rovescio della mano, ha la bocca sanguinante. Le persone d’intorno si dividono in due gruppi e a stento ci portano fuori dal bar per evitare spiacevoli e gravi conseguenze. Gli urlo in faccia che non deve nominare mio nipote, la sua risposta è un sonoro: “vai a farti fottere, hai fatto un figlio senza coglioni.” D’istinto senza pensarci gli tiro un pugno senza guardare dove poteva arrivare, vedo il tizio che si affloscia sul marciapiede, non riesco a fermarmi, lo tiro su tirandogli i capelli, lo incollo al muro, “se ti sento ancora una volta parlare di mio nipote ti cambio i connotati e finisci all’ospedale, capito?” Non ha la forza di rispondere. Lo lascio lì e mi avvio verso casa. Mai avrei pensato di reagire in quel modo. Nel corso degli anni ho imparato a tenere sotto controllo la rabbia, ma quella sera della vigilia ho perso il senno. Sono a metà strada, mi viene incontro a passo svelto Linda, - mi ha raccontato tutto la moglie di Marcello, l’hai messo al suo posto quel farabutto d’una malalingua. “Non sai quanto mi dispiace aver reagito in quella maniera, domani sono sulla bocca di tutti e se lo viene a sapere Fausto dai suoi compagni di classe, mio figlio e mia nuora non me lo perdoneranno mai.” - Andiamo a casa, stai tranquillo hai fatto la cosa giusta. Arriviamo, tolgo il giaccone e mi allungo sulla poltrona senza togliermi gli scarponi, incomincio a tremare e mi scendono le lacrime dagli occhi, “dovevo lasciar perdere, lo sanno tutti che razza di personaggio è.” – Proprio per questa ragione non devi star male, a tutto c’è un limite e quando questo lo si sorpassa, non si sa mai quali sono le conseguenze.
L’albero di Natale e il presepio che mia moglie ha fatto sono lì davanti ai miei occhi, le luci intermittenti e la composizione del lavoro fatto da Linda mi distraggono dai pensieri. La notte non riesco a dormire, quelle parole che il cretino ha pronunciato ora mi fanno più male della reazione che ho avuto d’istinto. Mi rigiro in continuazione, pure Linda non riesce a prendere sonno. - Ascolta mio caro, noi siamo una famiglia e questa parola ha senso solo se la si riempie di contenuti positivi e noi lo abbiamo sempre fatto, tra noi due, con nostro figlio, con sua moglie e con Fausto. Come puoi pensare e crucciarti sul fatto che tuo figlio non capisca la reazione che hai avuto nei confronti di chi ti ha toccato uno degli affetti più cari che hai. Cerca di riposare, domani è una giornata speciale e c’è ancora la neve. Le parole di Linda hanno l’effetto di un toccasana, non chiudo occhio ma mi sento come se mi avessero tolto un peso di dosso.
Il mattino di Natale.
Ci alziamo dal letto e Linda, puntualmente mette su il caffè, scruta fuori dalla finestra, “è ancora tutto bianco”. Mi sento diverso dalla sera prima, quello che mia moglie mi ha detto mi ha dato nuova energia per affrontare nel miglior modo possibile questa giornata di festa. E’ tutto pronto, Lidia la vigilia si è data un gran da fare per preparare il pranzo natalizio mentre io, lasciamo perdere. Rimango in casa, non ho assolutamente voglia di incrociare gli sguardi di chi pure oggi è pronto a giudicare. Alle undici e trenta, il trillo del campanello, vado al citofono ad aprire il portone. Eccoli salire scale, conduce il gruppo Fausto seguito da mia nuora e a ruota mio figlio. Appena entra in casa mi abbraccia e corre da sua nonna, non si toglie la roba di dosso, le parole gli escono a valanga nel descrivere quello che ha trovato sotto l’albero. Mia nuora mi abbraccia affettuosamente e mio figlio come entra mi dà una pacca sulla spalla, “non si parla della natività questa mattina in paese, il protagonista sei tu, l’altro non è che un comprimario messo per una buona volta al suo posto.” - Sono dispiaciuto, mi sento uno schifo, non so che cosa mi è preso. Ho solo fatto un gran pasticcio e mi auguro non abbia conseguenze per mio nipote. Mia nuora si avvicina, mi prende sotto braccio e mi accompagna alla poltrona, lei si siede affianco, “non essere dispiaciuto, hai fatto quello che avrebbero fatto tanti altri nonni.” - Ma, se Fausto viene a sapere dagli altri…, non mi lascia terminare la frase, “non ce né bisogno, sa che è stato adottato, e da un po di tempo, con l’aiuto di un psicologo siamo riusciti a spiegargli che l’unica differenza sta in una parola, biologico, l’altra quella più importante è che lui è nostro figlio.
- Perché non ci avete detto niente? “Per una sola ragione, quella di evitare di parlarne ancora con lui, quando vorrà noi gli daremo tutte le notizie in nostro possesso, per ora deve vivere la vita senza assilli e sentirsi amato per quel che in realtà è, un figlio per noi, un nipote per voi. E’ stata la più bella sorpresa che mai nella mia vita abbia ricevuto. Sono felice che mio figlio e mia nuora abbiano raggiunto questo grado di maturità nell’affrontare i problemi della vita.
Fausto è in cucina con Linda e mio figlio, lo sento che reclama l’apertura dei pacchi che sono sotto l’albero, “quando apriamo i regali?”
- Gli urlo, quando vuoi! Si precipita in sala seguito da Linda e suo padre che non vogliono perdersi l’apertura dei pacchi. “Qual’è il mio, nonno? - Il pacchetto più piccolo che c’è. Non batte ciglio, prende tra le mani il pacchetto ben confezionato da Linda, lo apre, un biglietto con su scritto: corri in solaio. “Vieni papà, andiamo a vedere cosa c’è. Salgono le scale, aprono la porticina del solaio. “Evviva la bici nuova, grandi i miei nonni!” Mi sporgo dal vano scala, - peccato che non puoi usarla ora, volevi la neve, sei stato accontentato, appena si scioglie, prova subito la bicicletta e quando vuoi farti una pedalata io sono qui. La bici quando rientrate portatela con voi, a beneficio di mia nuora che ne avrebbe fatto a meno, - in solaio occupa spazio. Quando Linda e mia nuora ci chiamano, andiamo a tavola. E’ per noi sempre un momento particolare quando pranziamo assieme, lo viviamo sempre con la stessa intensità, condividiamo un sorriso, raccontiamo quel che di bello ci è capitato durante la settimana e lasciamo alle cose storte il loro tempo per farsi da parte. Non un cenno di quel che è successo nella vigilia. Fausto, con la bocca piena è continuamente a chiedere quando la neve si scioglierà, in questa giornata non posso rispondergli, non lo so, poco prima alla radio ho ascoltato le previsioni del tempo e in tutta la Liguria da domani torna a splendere il sole. “Ragazzo mio preparati, domani c’è il sole che fa sparire la neve.” - Ne sei sicuro nonno? “Sicurissimo” – Come fai a saperlo? “Segreto nipote mio.” Linda, - nessun segreto Fausto, tuo nonno ha sentito le previsioni alla radio.” - Allora non sei stato tu a regalarmi la neve. “Vero, io e la nonna ti abbiamo regalato la bici, ormai quella che avevi ti stava stretta, la neve che hai chiesto è il corso della natura che regola il tempo che l’ha mandata. Nessun prodigio, in questo caso diciamolo pure: una bella patta di culo. Ride come un matto e contagia tutti noi che come allocchi gli andiamo dietro. Nel tardo pomeriggio, fanno ritorno alla loro casa, io e Linda ne approfittiamo per fare una passeggiata in paese.
Linda mi si raccomanda che non devo far caso agli sguardi, - facciamo sì che questa giornata si concluda come è iniziata, promesso? “ Stanne certa, prometto.” Incontriamo poche persone in giro a quell’ora, e tutti quelli che salutiamo si fermano senza secondi fini a parlare, si percepisce dal tono della voce, dalla disponibilità di ascoltare, altri ci invitano a prendere un caffè con loro, ne ho voglia e pure Linda di passare un poco di tempo in compagnia ma l’idea stessa di entrare nel bar dove il giorno prima mi sono azzuffato mi ripugna. E’ linda a rompere gli indugi, “prendi il toro per le corna ed entriamo.” - Va bene, andiamo a prenderci questo caffè in buona compagnia.
La sera a casa seduti in cucina spilucchiamo gli avanzi del pranzo, mentre parliamo il volto di Linda s’illumina quando l’argomento è quello del nostro nipote, “un bambino brillante, cresciuto bene, e poi già sapeva che è stato adottato e si è sempre comportato come se niente fosse, è sempre affettuoso e pronto a giocare con noi, è proprio vero che lassù c’è qualcuno che pensa a mettere le cose a posto.” - Le cose a posto le hanno messe i suoi genitori, parlandogli e cosa ancora più importante essersi confrontati con chi sa come affrontare i problemi. Vedi, i miei “non lo so”, quando mi pongono domande alle quali non ho risposta sono sempre occasioni per imparare qualcosa di nuovo, non mi sento in imbarazzo ad ammettere che ignoro molte cose, l’importanza del comprendere avviene sempre dopo, mai prima. Chi si crede di essere nato imparato e ha la soluzione pronta per ogni problema è una persona della quale occorre diffidare. Mia cara, una bella giornata ma faticosa, io vado a letto, domani mi alzo presto, vado a sistemare i palamiti, almeno sono concentrato su qualcosa di utile. In sogno mi ritrovo in mezzo al mare con il mio gozzo, d’intorno una vastità di pesci bianchi, non ne avevo mai visto, mi parlavano in un linguaggio che non riesco a capire, poi una luce intensa mi abbaglia, è il faro di una pilotina della guardia costiera, si accostano e un marinaio sale sul mio gozzo, - tutto a posto? Cosa ci fa nel mezzo del mare a quest’ora, guardi sulla riva c’è sua moglie preoccupata che l’aspetta. Mi desto dal sogno, mia moglie è lì vicino a me, dorme tranquilla, mi alzo, vado in cucina a bere un bicchiere d’acqua e ritorno a letto tentando inutilmente di addormentarmi. Erano successe in una settimana una quantità tale di avvenimenti che a volte non succedono nel corso di un anno. La promessa, la neve, la scazzottata, l’adozione, devo trovare il modo di mettere fine a questi pensieri e ritornare al razionale della mia quotidianità. Non so se ci riuscirò.
Che senso dare al sogno, i pesci che parlano in un linguaggio che non capisco, chissà cosa avevano da dirmi.
Voglio saperlo ma ora non è il momento di pensare e io non sono in condizione di recepire i miei pensieri. Se riuscissi a riposare un poco sono sicuro che domani mattina troverei la risposta. La mia mente è in un groviglio di dubbi e domande. E al mattino dopo una notte insonne trovo nella mia mente la risposta o meglio, quello che il mio subconscio mi suggeriva. “Affronta a testa alta la giornata e quelle a seguire senza rammarico per quel che è stato, da parte di chi ti vuol bene è già dimenticato.” Bastò questo pensiero colmo di positività a cambiare il mio umore, e il corso degli eventi. Niente palamiti, passeggio sulla riva del mare, la neve si è sciolta e le impronte sulla sabbia bagnata sono profonde, attendo l’ora in cui mia nuora accompagna in chiesa mio nipote. Entro in Chiesa, era da tempo che non ci mettevo piede dentro, mi siedo nella panca vicino a Fausto, mi guarda come se avesse visto un fantasma, e ne ha ragione, non mi ha mai visto in Chiesa. Rimango seduto vicino a lui, non ascolto il prete e non mi alzo dalla panca nemmeno quando l’invito gestuale del prete è evidente, ho solo voglia che mi vedano vicino a mio nipote, come quando siamo fuori, uniti, complici, contenti. E’ probabile che i pettegoli tengano le loro lingue a freno, la lezione impartita a uno di questi spero sia servita da monito a chi specula anche con le parole sulle fortune o le disgrazie degli altri.
E’ da gennaio che con il gruppo di amici si discute sulla meta del trekking estivo. C’è chi propende per la Sardegna, chi per la Calabria. Mette fine alla discussione sulla scelta da fare la proposta di Giovanni: “il cammino porta d’oriente” nelle Marche. Spiega che da Ancona suddividendo il percorso in due tappe visto lo sviluppo chilometrico importante per raggiungere il santuario della Madonna di Loreto. La durata del trekking è di cinque giorni. La notte del 3 Luglio 1976 ci troviamo come convenuto nei pressi della gelateria “Babada”; nostro abituale punto di ritrovo. Carichiamo gli zaini nel bagagliaio dell’auto di Massimo e ci mettiamo in viaggio. Siamo in quatto: lo scrivente, Francesco, Massimo, l’autista, Giovanni, il prudente e Marco, l’instancabile. Arriviamo a Parma strafatti, Massimo a tutti i costi ha voluto fare il percorso in auto su strada statale. Posteggia l’auto nei pressi dell'Università degli Studi. Zaini alle spalle e c’incamminiamo per la città alla ricerca di un posto dove passare la notte. Marco chiede a un passante dove possiamo alloggiare a buon prezzo. - Proseguite in direzione dell’ospedale, quando siete nei pressi chiedete della Colomba. È una signora che tutti conoscono. Affitta le camere agli studenti, di questa stagione certamente ne ha di libere. Camminiamo per una buona mezzora prima di arrivare nelle vicinanze dell’ospedale, ancora una volta Marco chiede della signora Colomba. - In quel palazzo alla vostra destra, dove c'è il cartellone arancione, suonate al tre. Arriviamo al portone, suono al citofono, non ricevo risposta, apre il portone una bella signora. “Sono Colomba, in cosa posso essere utile?" - Siamo in cerca di una camera, ne ha disponibili? E pure il prezzo, per cortesia. “Ragassi: per una da quattro colazione compresa, sono quindicimila lire anticipate.” Ci accordiamo. Ci fa strada lungo un corridoio ai cui lati ci sono le porte delle camere. Ne ho contate dodici. E in quella ci invita a entrare. Quattro letti da una piazza, un lavabo, l’armadio e due sedie. Quadretti esotici sparsi qua e la appesi alle pareti. I servizi sono in comune con tutti gli altri ospiti. A noi va bene così. Seduti ognuno nel proprio letto progettiamo la serata. Cena o discoteca sono le opzioni. Prevale la cena in una trattoria tipica. Io non sono dell'umore giusto per la serata che sicuramente si sarebbe prolungata sino a tarda notte. Colpa della stanchezza o chissà che altro. Invento una valida scusa. - Ragazzi, vado a riposare, ne approfitto per il tempo che restate fuori perché poi, come al solito devo sorbirmi le vostre scoregge e i vostri rutti. Una sonora risata. E’ andata. Nessuno si è offeso. Mi spoglio e mi do una sciacquata in quel lavabo di altri tempi. Indosso una maglietta e mi corico Mi addormento in quella atmosfera di tempi ormai passati. Mi sveglio di soprassalto sentendo bussare alla porta della camera. Guardo l'orologio, erano passate due ore da quando mi ero coricato. Possibile che fossero già rientrati? Non era nel loro DNA. Passare le notti a bighellonare in giro è una consuetudine. Indosso i calzoni e vado ad aprire E’ la signora Colomba, con la sua parlata tipica dell'Emilia mi dice: - “ragasso, vien che mi aiut a metter tuàia che cènà con mi; non sta li impàlà che ho sprescia!” La seguo in cucina e insieme apparecchiamo. Stappa una bottiglia di Lambrusco e versa il vino nei bicchieri. Conversiamo, tra un sorso e l'altro mi dice che ha cinquantuno anni. Penso: “hai la stessa età di mia madre però sei una gnocca pazzesca.” La conversazione continua, la cena può attendere, non ho neppure molta fame. Mi racconta della sua vita, così, come fanno le persone di una certa età. “Sono nata e vissuta in una frazione di Faenza. I miei genitori erano agricoltori. Non ce la passavamo male, ma a me quella vita mi stava stretta. Avevo sedici anni quando mi sono trasferita a Parma, dalla sorella di mia madre. Germana il suo nome. Gemma il nomignolo. A differenza della mia mamma, la zia gestiva un importante giro d'affari. Fu così che un bel giorno mia madre mi dice: vai! Forse in città le tue aspirazioni si possono concretizzare. Non avevamo ancora toccato cibo. Alla bottiglia di vino ci si vede il sedere. Ne stappa un'altra, versa il nettare e prosegue: mia zia era proprietaria di un Bordello! Un Casino! Tutto il palazzo era di sua proprietà! Ed è proprio questo! Sì! Alloggi nella “Casa del Piacere “SORA GEMMA.” Immagina quel che succedeva nel letto dove eri coricato sino a poco prima! Sono inebetito, per di più ho una erezione spontanea che non riesco a nascondere. Mi alzo per aiutarla a portare le pietanze in tavola ma non riesco a celare quella protuberanza che gonfia i pantaloni. Mi toglie dall'impaccio. Siedi! “Botà so e magna ragasso.” (Butta giù e mangia ragazzo.) Il dopocena non l’ho mai dimenticato. Rientro in camera che sono le tre, gli amici non sono ancora rientrati. Mi getto sul letto, mi sento leggero, appagato, davvero una bella sensazione. Non so a che ora mi addormento ma so perfettamente l’orario di quando sobbalzo per il rumore di passi pesanti e risate. Sono arrivati. Dopo poco un alternarsi di russate dai rumori diversi emessi da ognuno di loro che mi infastidiscono al punto di togliermi il sonno. Mi rigiro nel lenzuolo e penso a quello che con Colomba, poche ore prima abbiamo fatto. Brutta idea, una parte di lenzuolo sembra una vela. Rimango li a osservare i tre perdi notti fino a che la voce di Colomba si fa sentire. “Ragassi è pront la claston, tìn bòtta che si frèsh! (Ragazzi la colazione è pronta, fate presto che si raffredda). In un battibaleno siamo in cucina; caffè latte e torta di mele sul tavolo. “Che mi dite: vi siete divertiti ieri notte? - Ho sentito quando siete rientrati! - Ne avete incontrate di fate patace? (Ne avete incontrato di belle ragazze?)” Silenzio. Solo il movimento delle mascelle. “E tu dormitor che disi? (e tu dormiglione, che dici?). Mi limito ad assentire. Finito di fare colazione ed entriamo in camera. Riordinammo alla bella e meglio. Zaino in spalla, salutiamo Colomba e ci avviammo verso l'auto.Una tirata e colmiamo la distanza tra Parma e Ancona. Trecentoventi chilometri d’auto. Massimo si ferma a un autogrill a metà percorso, giusto il tempo per un caffè. Giunti nella città si parcheggia l’auto. Per strada noto il volto stravolto dei miei compagni, mi domando come deve essere il mio dopo la notte parmense. Accendo una sigaretta, la prima della giornata, gli invito a prendere un caffè. Marco e Giovanni: - No grazie! Vi aspettiamo! Andate pure! Per loro è questione di braccino corto. Con Massimo ci avviamo in direzione del bar, entriamo e ordino due caffè, nel frattempo che li sta preparando gli chiedo informazioni, mi risponde in modo incomprensibile, nel suo dialetto, la lingua Italiana era una chimera per quel signore dietro il banco. Massimo:- che sfiga, non si capisce un cazzo di quello che dice. Quando raggiungiamo gli altri due, notiamo che è cambiato qualcosa nel loro umore. “Abbiamo le informazioni che ci servono, parlano uno sopra un tono dell’altro. Nelle vie trasversali troviamo la pensioncina che hanno indicato a Marco e Giovanni. Prendiamo accordi sul prezzo, io gli chiedo se al mattino può lasciare la colazione sul tavolo. Abbiamo intenzione di raggiungere Loreto a piedi. “Siete dei pellegrini? - Da dove venite?” Arriviamo da Sestri Levante e non siamo pellegrini. Chiede di essere pagato anticipatamente. Poi, ognuno nella propria camera. Sveglia alle cinque, mezzora dopo siamo al tavolo, imbandito per la colazione. Poi, zaino in spalla in direzione del Duomo.
Usciti dalla città imbocchiamo una sterrata. Una freccia di legno consumato con su una scritta sbiadita indica Varano. Siamo nella giusta direzione. Campagna e collina da dove si aprono qua e la scorci panoramici. Avanziamo con prudenza per non inciampare nei massi che l'erba copre. Ogni volta che si voleva godere del panorama, una sosta.
E’ un’opportunità per prendere fiato, visto che il percorso è tutto in forte salita. Con passo continuo arriviamo a Montacuto. Il sentiero termina e lascia spazio a una strada asfaltata che percorriamo sempre in accentuata salita. Un vero toccasana per i muscoli delle gambe. Arrivati a Varano, su un cartello campeggia una scritta: Parco del Conero. Una sosta di una decina di minuti e poi sempre in accentuata salita saliamo a Poggio. Un bel borgo, antico, caratteristico con una splendida veduta sul mare Adriatico. Lungo la strada troviamo un locale che somiglia vagamente a una osteria. Entriamo, chiedo se si può riempire le borracce d'acqua. Una sonora risata da parte di chi sta dietro il bancone. “Siete saliti fin qui per l'acqua? Fate pure! Ragazzi, aspettate, bevetevi questi bicchierini di vino! Offre la casa! Qui il vino è sacro.”
Ci sediamo a sorseggiare con piacere il vino che ci è stato offerto. Mi rendo conto solo in quel momento di quante ore avevamo camminato. Nove ore. Al giorno d’oggi i più, con l’ausilio della tecnologia, sono a calcolare i chilometri percorsi. In quegli anni contavano i tempi: siamo partiti alle, siamo arrivati alle. Un uomo nerboruto si avvicina a Massimo e gli chiede se passiamo lì la notte. Centelliniamo il vino e si decide di passare la notte in quel locale che funge da posto tappa per i pellegrini diretti a Loreto. Ottima scelta, cibo locale e vino a volontà.
Il giorno dopo consumiamo una abbondante colazione, saldiamo il conto e riprendiamo il nostro cammino che fortunatamente si snoda a valle. Non più salite. Siamo nella campagna pianeggiante del Conero, nel bel mezzo del più antico bosco marchigiano. Dobbiamo attraversare un guado del fiume Musone, non mi posso dimenticare il nome perché da lì in avanti, musoni ne abbiamo incontrato molti.
Il sentiero termina vicino alla stazione ferroviaria di Loreto. Siamo arrivati. Non posso crederci, guardo i miei amici, pure loro increduli nel vedere nel vedere quella moltitudine di pellegrini salire i trecento trentatré scalini sulle ginocchia. La chiamano la scala santa. Io la chiamerei la scala dei record. Non avevo mai assistito a una scena simile, canti a squarciagola, inni sacri sciorinati nel loro dialetto. Molti di questi finita la scalinata, messi a pecora baciano il terreno. A noi non rimane che accodarci a debita distanza. In scioltezza affrontiamo la scalinata e giunti in cima uno spettacolo inusuale una veduta ad ampio raggio su tutta la riviera. Aspettiamo in quella bella cornice paesaggistica che il Santuario si svuoti, niente, sembra che chi è entrato non voglia più uscire. Entriamo, proprio in quel momento la frenesia dei pellegrini raggiunge l'eccesso. Usciamo precipitosamente, spintonando chi era sui nostri passi domandandoci dove eravamo finiti. Una fede, che interpretata in quel modo è un insulto ai credenti e a Dio. Tutti e quattro siamo sbigottiti. Non abbiamo parole per descrivere le scene di fanatismo che abbiamo visto. Dal piazzale osserviamo un gruppo di pellegrini guidati da una donna, come mette piede sull’ultimo gradino della scalinata incomincia a gridare a squarciagola: “miracolo! Miracolo! Giorgio sente di nuovo! Miracolo! Quelli al seguito indicano il miracolato, a me sembra che senta molto bene, vedo la sua faccia sorpresa e le gomitate che riceveva dalla donna che continuava a sbraitare. I miracoli li fanno quelli che fanno credere che in quel posto il prodigio può avvenire. Ci è passata pure la fame, entriamo in un baretto, pure lì ci sono una miriade di immagini sacre. Volevo uscire, anche se il sole in candela rendeva torrida la temperatura, desisto e insieme agli altri ordiniamo da bere. Trangugio velocemente la mia birra ed esco, ho voglia di libertà e pure del caldo. Non passa tanto che mi raggiungono pure gli altri. Mi dispiace immensamente non aver potuto visitare la Basilica perché è raro vedere strutture architettoniche di quel tipo, più che a un luogo sacro somiglia a una fortezza. Peccato. Me ne faccio una ragione. Imbocchiamo una stradina, una indicazione: “Piazza della Madonna” centro artistico monumentale della città. Lo raggiungiamo, l’aspetto monumentale è di gran pregio, ci perdiamo tra quei monumenti che evocano la storia di altri tempi. Stona con quella ricchezza artistica il contorno. Banchetti con esposte immagini sacre, santini, crocefissi e quant'altro di quel genere. Acquistiamo solo i biglietti del pullman che alle diciotto parte diretto ad Ancona. Lì passiamo la notte e il mattino seguente direzione Parma. Ci fermiamo e passiamo la notte da Colomba. Ognuno di noi questa volta aveva una camera singola a propria disposizione. Nella mia, un letto a una piazza e mezza che nel corso della notte diventa a una per la presenza ingombrante di Colomba che si infila senza chiedermene il permesso sotto le lenzuola. Prima che inizi la danza mando un saluto vocale a Loreto: A MAI PIU'. Colomba mi guarda perplessa. Il giorno successivo rientriamo. Cosa mi ha regalato questa vacanza? Me lo domando sempre quando rientro e annoto. Questa mi ha regalato le immagini espresse dalla natura, le opere architettoniche, quelle monumentali, la compagnia dei miei compagni di viaggio e quel benedetto diavolo di donna, Colomba.
Quello che mi ha colpito in negativo, almeno per me che sono credente ma non osservante di nessuna confessione religione è che a Loreto tutto si muove sull’aspetto emotivo portato all’esasperazione. Questo non mi tocca nel profondo perché con Dio ho il privilegio di parlare senza intermediari, per la Chiesa cattolica è un problema ben più serio perché ha permesso che queste manifestazioni isteriche di fede abbiano attecchito al suo interno. Io continuo a viaggiare, a inerpicarmi per i monti e il mio pensiero mentre affronto la fatica per la meta da raggiungere è il mio dono al contesto meraviglioso della natura.
Luoghi così caratteristici non ne ho mai visti. Le case a differenza delle nostre sul mare si mostrano tristi. Una ragione c’è, il forte vento. Le finestre sono così piccole che un soffio d'aria fatica a entrare. È la mia prima escursione in solitaria. Sono in Romagna, nella valle del Montone. Sul valico l'osteria "Primavera della vita" è adibita pure a rifugio. Punto tappa dove passo la notte. È sera quando arrivo, davanti all’osteria, ci sono molte persone affollate, l'occhio mi cade su una ragazza che ha all’incirca la mia età. Capelli rossi, occhi scuri. Quel contrasto mi piace, non riesco a togliergli gli occhi da dosso. Ha i lineamenti del viso spigolosi che rimarcano il carattere forte e coraggioso della ragazza. Scoppia improvviso una baruffa tra un gruppo di ragazzi e la rossa dagli occhi neri entra in modo veemente nella rissa che sta per scoppiare. Sto per intervenire ma sono bloccato da un braccio massiccio. Il volto è quello di un signore calvo con una lunga barba rossa. “Non ti impicciare sono beghe di paese.” È intervenuta per difendere il fratello, e nella concitazione del momento lo chiama per nome. ”Beppe, sono qui”. Lo toglie dalla mischia e la bagarre di poco prima cessa. Il calvo con la barba rossa è lì vicino a me con un'aria soddisfatta, gli domando il perché della zuffa. Non ottengo risposta. Soltanto: “hai visto ragazzo che forza mia figlia? Devono sbrigarsela da soli. Pure dopo una scazzottata, da queste parti si rimane amici.
Ho sulle gambe una ventina di chilometri caratterizzati da forti dislivelli e, il mattino successivo voglio raggiungere la vetta dell’Alpe di San Benedetto. È mattina. L’aria della notte si fa sentire. Dopo l'abbondante colazione mi metto in marcia. Mi inerpico aiutandomi con i bastoncini per la cresta sassosa del monte Tramiti. Un gran dislivello. Salita faticosa. La tentazione di tornare indietro è forte, ma non è altro, che la ribellione della pigrizia contro la volontà. Riprendo il cammino passo lento senza fermarmi se non per una sosta a bere una sorsata d'acqua. Il piacere della scoperta non mi abbandona, anzi stimola l’attenzione e affina i sensi.
Mi avvicino a una capanna, una donna energica mi fa segno di avvicinarmi e con un fischio chiama le capre che stanno pascolando. Arrivano in gruppo, mentre le pecore e le mucche continuano come se niente fosse a brucare l'erba e a scacciare le mosche. Si lasciano carezzare dalla pastora che le chiama per nome, poi ne munge alcune e mi offre una ciotola di latte caldo e spumante. Chiacchieriamo amabilmente seduti su di un masso, un incontro inatteso che mi permette di capire quale è il valore del lavoro in quelle zone montane. Ho la cima del monte davanti a me, guadagnarla non è facile. Consulto la carta e trovo un percorso alternativo che è più lungo ma più agevole. Ho raggiunto la vetta e lo spettacolo che si presenta ai miei occhi mi appaga della fatica compiuta. Una vastità di monti. L'appennino centrale è lì davanti, in lontananza fanno capolino le vette più alte. Una veduta che non ho più dimenticato. Arriva il momento in cui mi devo distaccare da quell'incanto, mi attende la sorgente dell'Arno che raggiungo con gran soddisfazione. Bevo con le mani a coppa l'acqua limpida e gelata. Rigenerato e gratificato riprendo il cammino in forte pendenza su un sentiero inaridito dal sole. Quando arrivo nei pressi dell'osteria la gente mi guarda con curiosità.Mi viene incontro un ragazzo e mi chiede se sono socio del Club Alpino? Rispondo, sì. - Pure lui lo è. Instauriamo un rapporto di fraterna amicizia, il collante è la passione per la montagna. Ceniamo assieme scambiandoci le nostre esperienze. Si chiama Arturo e il mattino seguente lo trovo ad aspettarmi. Facciamo una abbondante colazione assieme e poi mi accompagna per un buon tratto di salita per l'eremo che non raggiungo a causa delle scarse indicazioni nel corso del percorso. Ritorno su i miei passi contento e felice di aver fatto questa escursione in solitaria. Abitualmente il trekking sui monti lo pratico con un gruppo di amici e raggiungere le vette dei monti è sempre una grande emozione che condividiamo assieme. Quello di cui scrivo oggi è un modo diverso nell’affrontare il cammino sui monti, ho goduto appieno il silenzio del bosco e non ero mai solo, in compagnia dei miei pensieri e del mio fiato. Per me non è una sfida a quelli che sono i miei limiti sto molto più attento e ricettivo ai particolari che spesso cambiano con il mutare del tempo. Macino dei gran chilometri di cammino e dislivelli importanti evitando le traccie che tagliano il bosco, a ogni deviazione controllo la carta e verifico la mia posizione, ci vuole poco a sbagliare, riprendo la marcia solo quando sono sicuro di essere sul sentiero corretto. In gruppo sono meno cauto perché posso contare sull’orientamento di un compagno o sul suo aiuto per superare i passaggi più difficili. Le raccomandazioni che ricevo ogni volta che affronto un trekking in solitaria sono svariate e tutte hanno una loro ragione, solo che te le fanno persone che non hanno mai praticato la montagna, io rispondo sempre che essere in compagnia non annulla i rischi. Mi piace adeguarmi al territorio. Per chi è nato in montagna questa capacità è innata, così come per gli animali, per me ogni volta è una conquista.
Alla prossima cari lettori.
Alle Sorgenti.
La preparazione.
Dopo aver bevuto alla sorgente dell’Arno è giunto il momento di bere a quella del Tevere. Ne parlo con Adelmo, appassionato di caccia e buon camminatore. “Bella idea ma, nel periodo di caccia non mi sposto dalla mia zona.” - Abbiamo pensato di partire a Luglio, ti unisci a noi? L’idea non mi dispiace, ma, qualche cima dobbiamo farla, altrimenti io resto a casa. Io so delle doti di Adelmo, non solo come camminatore ma, pure come esperto di cartografia. Molti pomeriggi li passiamo a studiare i sentieri e i vari percorsi, stabiliamo il punto tappa. Il paese di Balze è un buon punto di partenza. Inoltre ci sono varie alternative per il trekking che abbiamo in programma. Si decide di noleggiare un’auto per il viaggio e stabiliamo la regola di guidare a turno, mentre lasciamo alla sorte, la scelta della logistica.
Il giorno della partenza.
Il punto d’incontro è la piazza del paese. Cinque ore di guida alternata per arrivare a destinazione. Ci mettiamo in movimento carichi come muli, dobbiamo trovare posto per sistemarci. Non c'è un albergo nemmeno a morire! Adelmo: - armiamoci di pazienza e qualcosa troviamo! Siamo nei pressi di un punto panoramico, una indicazione provvidenziale: Albergo Sorgente del Tevere. In forte salita arriviamo a destinazione. Entriamo. Siamo accolti calorosamente da una signora bassa di statura e robusta di corporatura, a me sembra una pallina. Domandiamo se ha posto per un soggiorno di mezza pensione per una settimana. “Certamente!” Lo esclama con un sorriso straripante, contagioso. Le fossette sulle guance risaltano, rendendola ancora più simpatica. Il prezzo è economico, ideale per le nostre finanze. Ci mostra le camere. Ne prendiamo possesso e ne approfittiamo per un meritato riposo. Poi, un giro nei dintorni per fare arrivare l’ora della cena. Quando rientriamo in albergo, la signora, trotterellando ci viene incontro. Ci accompagna nell'ampio salone e indica il tavolo. Arriva con due piatti ovali colmi di salumi, li posa nel mezzo del tavolo e in due cestini di Vimini con dentro il pane ancora tiepido. La segue a ruota il marito con due fiaschette di vino nero e due caraffe d'acqua. “ Dalla sorgente del Tevere per voi! Mettiamo in movimento le mascelle e ci buttiamo a capofitto sul pane e sul salume. Tra una boccata e l’altra escono pure fuori le parole. Prima fluide, poi, un pochino impastate. Aneddoti che ognuno di noi racconta con spensieratezza. La cena termina con due certezze, la prima: ci siamo saziati a dovere, la seconda è che siamo in cammino verso una meta che non conosciamo ma, vogliamo scoprire. Il giorno dopo ci troviamo di buon mattino nella sala per consumare la colazione. Pane, marmellata, miele, frutta, cereali e caffellatte sono a disposizione nel buffet preparato appositamente per noi. Quindici minuti di passo veloce e siamo all’attacco del sentiero. Il sole appena uscito non è il massimo per affrontare la salita considerando che nel corso della giornata picchierà forte. Siamo fortunati, il sentiero almeno nella parte iniziale si snoda in una immensa faggeta. Alla testa del gruppo c’è Adelmo che con un’andatura omogenea permette al gruppo di stare unito. Man mano che si sale osserviamo che oltre ai Faggi, c’è un’altra varietà di alberi, quelli con quella chioma ampia, Cerri. Normalmente si trovano ad altitudini più basse, probabilmente nei boschi sottostanti ce ne sono molti. Senza nessuna sosta in una quarantina di minuti guadagniamo la sommità del monte Aquilone. Una vistosa indicazione indica: “Eremo di San Alberico.” Per raggiungerlo si percorre un tratto di sentiero dove si alternano gradoni a massi che affiorano all’improvviso. Più avanti le felci ostacolano il cammino. Con il machete, Adelmo toglie le felci per agevolare il passaggio. Un centinaio di metri dopo il territorio cambia aspetto, si apre e spiana. Si intravede una costruzione in pietra e proseguendo un cartello, con scritto a lettere cubitali: “Terra del miracolo”. Siamo davanti alla costruzione in pietra. E’ l’Eremo. Parliamo liberamente a voce alta, non c’era nessuno intorno, solo noi e la bellezza del bosco. Ci sediamo su un gradino di pietra davanti all’entrata e mangiamo un frutto. Nel frattempo discutevamo su quale via prendere per guadagnare la cima del monte Fumaiolo. All’improvviso una voce baritonale: Ohi voi! E’ un frate. “Cosa pensate, che questo posto sia un bivacco? Vestiti in queste condizioni? Via! Via! Questo è un posto di preghiera!” Tutti noi siamo imbarazzati per quella accoglienza ma mentre gli altri mettono ordine ai loro zaini pronti per riprendere il cammino, io non riesco a stare zitto, mi rivolgo al frate con: “Il suo via! Via! Per me è il benvenuto!” Riprendiamo il cammino. Siamo davanti a un quadrivio privo di indicazioni. Non possiamo andare a sensazione, dobbiamo consultare la carta. Direzione nord. Procediamo in un ambiente caratterizzato da rocce imponenti che costeggiano il sentiero immerso nel bosco. Procediamo con attenzione, la vegetazione a tratti invade il sentiero poi, un altro scenario: usciamo allo scoperto e costeggiamo dei pascoli, mucche con le mammelle gonfie, capre e pecore che non si fermano un attimo dal mangiare erba. Il pascolo è ben recintato. Nonostante questo un Pastore Maremmano ci segue lungo il sentiero fin che non termina la recinzione, a quel punto ritorna sui suoi passi. A passo spedito arriviamo su una strada asfaltata, un cartello indica il sentiero per le sorgenti del Tevere. Imbocchiamo quella direzione e saliamo in un altro bosco che ben presto prende le sembianze di una maestosa foresta di Faggi. Con un po di fortuna individuiamo una colonna di pietra, è il punto in cui la sorgente esce fuori dalla montagna. A turno con le mani a coppa beviamo l’acqua che fila dalla sorgente. Più avanti un monumento stona con l’ambiente. Ci sono tre teste di lupo sovrastate da un’aquila e vi è incisa una scritta: “Qui nasce il fiume sacro ai destini di Roma”. Siamo curiosi, consultiamo la carta e con l’ausilio della bussola traguardiamo il punto in cui il rapace guarda la direzione è quella di Roma. Mussolini ha fatto erigere in quel verde acceso delle sorgenti il simbolo dell’impero romano riutilizzato nell’epoca del fascismo. Dopo la divagazione storico culturale, zaino in spalla diretti al rifugio Bianca neve. Siamo alle pendici del monte Fumaiolo. Imbocchiamo il sentiero ben segnalato, passo dopo passo in dolce salita. Perdiamo la cognizione del tempo tanto è suggestiva la camminata. Sulla cima del monte una vista a perdita d’occhi. Il tempo è passa velocemente e nostro malgrado dobbiamo riprendere in fretta il cammino. Seguiamo l’indicazione: “cascatella del Tevere”, c’è una parte di bosco con molti alberi tagliati e le indicazioni si perdono, una piccola sosta per fare il punto. Occorre fare un po di cammino fuori sentiero ma, poco più in basso ci colleghiamo nuovamente alla via da seguire che diventa sterrata terminando nel paese di Balze, da lì raggiungiamo l’albergo. L’essenza del nostro pensiero è il dono che noi abitualmente facciamo al magnifico contesto della natura.
Il mio nome è molto più interessante del mio aspetto. Il viso è anonimo, il che nella mia professione è un vantaggio. Pietro, il mio mentore, è anziano, fa rutti alla cipolla, fuma la pipa. Passale giornate a brontolare e a scherzare. Abita vicino a casa mia. Lo osservo mentre attraversava faticosamente la strada, avvolto in una nuvola di fumo, con le sue stampelle in legno. Ha perso una gamba in guerra. Ho tredici anni quando comincia a interessarsi a me. L’artrite lo fa soffrire, impedendogli di lavorare. E' un buon maestro, migliore di quello che avevo alle elementari. Preciso. Esigente. Lo chiamano mano lesta. Faccio pratica nel suo appartamento, sempre al pomeriggio, dopo che ritorno da scuola. M’insegna i trucchi del mestiere. Ha costruito un fantoccio riempiendolo di stracci e mi fa esercitare, in quella che chiama arte. Passate alcune settimane Pietro indossa una vecchia giacca. Incomincio a fare pratica su di lui. E' molto critico. Mi rimprovera: - devi imparare a concentrarti! Dopo alcuni mesi comincia a farmi esercitare in pubblico. Devo individuare il passeggero sull’autobus di linea al quale dovrei sfilare il portafoglio. Non solo sull’autobus ma pure al mercato, all’angolo delle vie. Alla fine di tutte le prove supero l’esame. E' ora di mettere alla prova le mie abilità. Il teatro della mia prima è Riva Trigoso, piazzale della Chiesa, Le maestranze del cantiere navale lo attraversavano di corsa a mezzogiorno per raggiungere la mensa aziendale. Nei giorni precedenti avevo individuato lo sventurato a cui avrei tentato di sfilargli il portafoglio. E’ un uomo massiccio, muscoloso. Noto che quando corre zoppica leggermente e la sua corsa non è sciolta come gli altri operai. Il giorno stabilito, ci piazziamo poco prima dell'ora di pranzo con Pietro al centro del piazzale della chiesa in attesa. Indico l'operaio che arriva nella nostra direzione correndo, Pietro gli si mette davanti nel mezzo del piazzale; l’operaio inciampa e cade bestemmiando. Prontamente, come stabilito, lo aiuto a rialzarsi, ma lui mi spinge via con rabbia. Il gioco è fatto. Gli ho sfilato il portafoglio. Corro nel bar, è nelle immediate vicinanze. Entro, mi dirigo alla toilette, do due giri di chiave alla porta e apro il portafoglio. Ottantamila lire ”moneta in uso in quei anni”, i documenti, una foto di una donna giovane, una rubrica telefonica. Metto i soldi in tasca e, in un sacchetto di carta infilo il portafoglio e la foto che getto con noncuranza nel bidone della spazzatura. Non so dire il perché infilo in tasca pure la rubrica telefonica. Raggiungo Pietro a casa sua, dividiamo i soldi in parti uguali. - Hai fatto tutto come ti ho insegnato? Hai buttato via tutto? Arrossisco. Mostro a Pietro la rubrica telefonica. - Credi che ti venga a trovare in prigione? Proprio no! Abbi un po di buon senso! Da quel giorno i bidoni della spazzatura ricevono tutto, tranne i soldi. Era un comportamento che mi dava fastidio, perché i malcapitati oltre ai soldi persi devono rimpiazzare i documenti. Una seccatura che fa perdere molto tempo e spendere altri soldi. Farsi prendere dalla compassione ed evitare di farli sparire significa il fallimento dell'impresa. Ora sono adulto e con i soldi sono sempre stato oculato sicuramente più di tanti altri che conducono una vita così detta normale. La mia è monotona. Sono sposato, ho due figli. Sono egoista. Faccio le vacanze in montagna con la mia famiglia, amo viaggiare e, quando sono in ferie non esercito mai. Mangio leggero, mi tengo in forma con delle belle camminate sui monti. Mi piace il buon vino, la musica. Conduco una vita tranquilla. Non mi aspetto molto dagli altri, così non corro il rischio di rimanere deluso. La mia professione è interessante. Il modo in cui provvedo al mantenimento della famiglia incuriosisce. Vorrebbero conoscere i dettagli. Io sto attento a non scoprire la mia vera natura. Tempo fa ai giardini pubblici, ho sfilato il portafoglio a una persona distinta; volete sapere cosa ho trovato assieme ai pochi soldi? Una bustina di Eroina. Finita nel bidone delle immondizie assieme al portafoglio. I soldi gli ho messi in saccoccia.
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A Genova presso il museo della navigazione rimango di stucco quando mi accorgo di aver sfilato il portafoglio a un agente di polizia in borghese, quando rovisto nel portafoglio trovo la sua tessera identificativa . Lascio immediatamente la zona del museo e mi avvio in direzione dei magazzini del cotone. Mi disfo del portafoglio e della tessera dell'agente di polizia. Un'altra volta in un grande magazzino, mentre salgo con la scala mobile per giungere ai piani superiori, allungo la mano nella tasca di un avventore e ho sentito il calcio di una pistola. Mi sono ritirato prontamente. So calcolare i rischi e sono contrario alla violenza. Sestri Levante, mia città natale, entro nella sala cinematografica quando il film programmato, è già iniziato. Mi guardo intorno, intercetto un spettatore, mi siedo a due file di distanza e osservo i suoi movimenti. Mi sembra agitato, si muove in continuazione sulla poltroncina, il film sicuramente non cattura la sua attenzione. Nell'intervallo, la sala si illumina, mi alzo per andare in toelette, quando ritorno alla mia postazione noto che pure lui si è alzato, inspiegabilmente è vicino alla mia poltroncina. Avverto subito quel piacere pruriginoso che per me è il gusto, il godimento di una sensazione piacevole che provo ogni volta che scarico l'adrenalina dal mio corpo. Infilare le mani nella giacca dello sconosciuto è una vera goduria. Con abilità riesco a sfilare fuori dalla tasca della giacca del malcapitato una busta dal contenuto pesante. Continuo a guardare il film attendendone la fine. Le luci illuminano la sala. Lo sventurato si alza e si avvia all'uscita, io rimango seduto sulla poltroncina in attesa che inizi il secondo spettacolo. Passa una mezzora e la mia curiosità di vedere cosa contiene quella busta pesante supera quella di vedere il film. Mi alzo e mi dirigo alla toilette. Chiudo la porta a doppia mandata. Non sto più nella pelle. Estraggo dalla tasca interna del mio giubbotto la busta che ho sfilato e ne esamino il contenuto. Come mi era stato insegnato avrei dovuto tenere i soldi e gettare tutto il resto. Non va in questo modo. La busta contiene duemila lire, una vera miseria; fogli stropicciati di ricette mediche, indirizzi di medici specialisti in oncologia, il libretto della mutua, la carta di identità e, una busta con dentro una lettera. Rimango deluso dal bottino. Apro la busta e leggo la lettera. Mi sudano le mani, mi tremano; mi siedo sulla tazza e fisso la firma. Lo scritto è una raccomandazione della moglie, malata di cancro. La frase che mi colpisce è: affronta in modo dignitoso questo triste momento della vita. Ti amo. Mi prende il rimorso. La lettera devo consegnarla al destinatario. Quello che fino a quel momento è stato semplice diventava tutto ad un tratto maledettamente complicato. Esco dalla toilette e a passo indeciso mi avvio all'uscita. Entro in un bar, ordino un caffè e mi siedo a un tavolo, trascrivo l'indirizzo che ricavo dalla carta d'identità su un taccuino che porto sempre con me. Pago il conto e acquisto un biglietto dell'autobus. Mi dirigo alla fermata e salgo sul primo autobus che passa. Quando sono in zona prenoto la fermata, scendo, mi dirigo all'indirizzo che prima ho annottato. Suono il campanello del portone, dal citofono mi risponde una voce di donna, chiedo di Giovanni Lo Persico, La signora mi invita a salire e mi fa accomodare. Persico non vive più qui da tempo, si è trasferito in un alloggio popolare nel quartiere Corea, altro non so dirle. Ringrazio, scendo le scale, esco dal portone e mi incammino in direzione del quartiere. Chiedo informazioni, nessuno conosce Lo Persico. Poi, chiedo a una signora anziana - conoscevo bene quella sfortunata, è morta soffrendo tantissimo, il marito dopo la dipartita della moglie si è trasferito in un monolocale nella periferia della cittadina. Mi dà l'indirizzo. Ringrazio, stringendole la mano. Nel pomeriggio raggiungo l'abitazione di Lo Persico, Il portone è aperto, salgo la prima rampa di scale e suono alla porta; mi apre un uomo a pezzi, barba lunga, spettinato, allampanato; non gli lascio il tempo di proferire parola. - Ho trovato questa busta; penso sia importante per lei. Prende la lettera dalle mie mani, mi fa cenno di entrare poi, scoppia a piangere stringendo al petto la busta. Grazie! Grazie! Sono imbarazzato da quel comportamento. La lettera di sua moglie mi ha commosso, il suo dolore non affrontato con dignità mi sembra patetico. La moglie gli ha chiesto di essere coraggioso, al contrario Lo Persico è un uomo distrutto. Non aggiungo parola, giro sui tacchi e esco. Ho bisogno di aria fresca. Tutto, tranne i soldi si deve buttare nella pattumiera!
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Genova Anno 1983. E’ attivato il collegamento sotterraneo funzionale all’incremento del traffico metropolitano, è stata realizzata la nuova fermata sotterranea chiamata “Genova Principe sotterranea”; dotata di due soli binari di corsa. L’accesso alla fermata sotterranea è possibile sia attraverso le scale mobili, poste nell'edificio della stazione ferroviaria, sia dall'esterno. La vita sotterranea non ha niente in comune con quella che si stende in superficie. Pendolari che entrano ed escono correndo per recarsi al lavoro, studenti urlanti in abiti sportivi. Non è un posto allegro, ma è diventato il mio nuovo territorio di lavoro. Scelgo una postazione dove posso osservare con attenzione senza essere notato. Anziani, barboni, giovani senza dimora si precipitano da un vagone all’altro per mettere insieme un pezzo di pane, i passanti allungano il passo per evitarli. Altre volte lo scenario è diverso. Musica allegra e chiassosa che rimbomba nei corridoi. Fisarmoniche, chitarre, sassofoni, trombe; suonano insieme. I nordafricani vendono ogni genere di merce, mendicanti senza gambe agitano i piattini per le elemosine; altri vendono castagne e noccioline. Lì sotto non c’è violenza.
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I musicisti. Ho avuto l’occasione di ascoltarli sul posto di lavoro. Verso la fine dell’esibizione mi sposto per mettermi in prima fila, noto che ai piedi dei musicisti c’è una custodia di chitarra piena di monete e banconote. Uno del gruppo, capelli lunghi legati in una coda di cavallo, si sposta nel mezzo della folla per la raccolta delle offerte, nella tasca della giacca tiene un rotolo di banconote, si ferma accanto a me, getto alcuni spiccioli nel cappello e gli dico quanto è bella la loro musica. Annuisce con naturalezza. Un signore gli tocca il braccio e lui va oltre per raccogliere altri soldi. E’ in quel frangente che con la mia consueta abilità gli sfilo il malloppo. Un gioco da ragazzi. Mi dileguo tra la folla e m’incammino con disinvoltura lungo la via. Le note della musica mi risuonano in testa. Entro in un bar, ordino un panino farcito, mi siedo a un tavolo nell’angolo e mi gusto il panino che innaffio con una birra, poi entro nella toilette per contare i soldi. E’ stato un buon colpo. Mi chiedo se quel giovane musicista ha perso il suo contegno. Spero di no. E' stato poco attento e, la mia tentazione troppo forte.
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Poteva essere il mio allievo. Lavoro tra la folla di turisti che si recano a visitare l’acquario. I turisti sono bersagli facili. E’ un giorno positivo. La stagione turistica è nel pieno. I marciapiedi lungo via Gramsci sono gremiti. I portafogli balzano fuori dalle tasche per conto loro. Le mie dita non sono mai state così così agili. A un certo punto della mattinata decido di andare alla mia postazione provvisoria, scelta con cura, per svuotarmi le tasche e nascondere il malloppo. Ho bisogno di staccare. Dopo una mezzora sono nuovamente in piena attività. Il lavoro procede con regolarità. Non è cambiato niente A un tratto vedo un ragazzo che sta tentando goffamente di rubare un portafoglio. Il bersaglio è un turista grande e grosso. Scosta con uno strattone la mano del ragazzo. E’ il tipico incidente che capita ai principianti. L’uomo fa un balzo all'indietro e strilla. Il ragazzo scomparse velocemente dalla visuale dell’uomo. Lo seguo lungo il marciapiede per parecchi isolati, svoltava in un vicolo, è appoggiato al muro intento ad accendersi una sigaretta. Gli tremano le mani. Lo osservo attentamente, all'orecchio sinistro porta un orecchino, sono attratto dalla sua insolenza, mi avvicino, e stabilisco un contatto che in poco tempo avrebbe potuto divenire un rapporto di lavoro. Dice che è arrivato da poco in città., è di Catania ed è assolutamente deciso a non finire in fabbrica a timbrare il cartellino per tutta la vita. Ha intenzione di diventare ricco rapidamente e il suo sogno è quello di vivere su una barca stando sdraiato tutto il giorno a bere e a caccia di donne. Io, memore delle lezioni di Pietro penso che in questo mestiere una cosa pericolosa è l’avidità, una persona avida si assume dei rischi assurdi, corre pericoli eccessivi e alla fine si fa prendere. Mi accorgo subito che il punto debole del ragazzo è proprio questo. Quando si è troppo ambiziosi, si può anche non raggiungere la maturità. Pensavo di aver trovato un socio in affari ma, come spesso dice mia moglie, non ne è il caso. Tengo il pensiero per me e, gli auguro buona fortuna. Ci separiamo. Proseguo a passo spedito in direzione della stazione ferroviaria per salire sul primo treno e tornare a casa.
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La dimenticanza. Sono sul marciapiede della stazione in attesa che il treno arrivi al binario, un pensiero improvviso e un brivido lungo la schiena, non ho ritirato dalla mia postazione quello che in quel giorno mi sono preso. Mi avvio a passo veloce, è l’ora di punta, le persone brulicano le vie della città per ritornare alle loro case. Presto la massima attenzione e raggiungo il nascondiglio dove è ben nascosto in una nicchia il sacchetto con il guadagno della giornata e lo infilo nella tasca del giaccone. Per la prima volta nel corso della mia lunga carriera, quel giorno, commetto un imperdonabile errore. Riprendo la strada per raggiungere la stazione, non ho fretta, il prossimo treno in partenza mi consente di prendermela comoda. Una gran giornata e sopratutto non mi sono lasciato trasportare dal sentimento nei confronti del ragazzo catanese, una saggia decisione. Fischietto per tutta la strada che mi separa dalla stazione. Nei pressi della stazione trovo il ragazzo con cui avevo parlato prima, l’aria di sfida sul viso e un sorriso compiaciuto. Mi si avvicina e dalla tasca dei pantaloni tira fuori tre orologi, - lavoro di quindici minuti, mio caro signore. Gli faccio i complimenti, augurandogli il meglio. Il ragazzo, mi stringe la mano e si presenta, Vincenzo, lo fa con estrema semplicità e cortesia tanto che io commetto il secondo imperdonabile errore di quella che sarebbe diventata una stramaledetta giornata, lo abbraccio e con fare paterno gli raccomando di stare sempre all’erta e di lavorare in solitaria senza dare troppa confidenza alle persone. Lo scambio di saluti è concluso e ognuno per la propria strada. Prendo il primo treno e, dopo un’ora e mezza arrivo a casa. E’ tardi, I miei famigliari erano già a letto. Ciò nonostante accendo lo stereo, metto le cuffie e ascolto un cd di musica classica. Apro una bottiglia di prosecco, accendo una sigaretta e mi corico sul divano. Un brutto presentimento, mi alzo di scatto, tolgo le cuffie e vado in corridoio dove ho appeso la giacca all’attaccapanni, infilo una mano nella tasca dove avevo messo da parte l’incasso della giornata. Era vuota. Accidenti! Sono sconvolto. Mi gira la testa, fatico a respirare. Muovo un passo di lato, barcollo, poi fortunatamente mi riprendo. Cammino avanti e indietro. Maledizione al ragazzo e pure a me stesso! Ho fatto un bel po di trambusto e, nel momento in cui mi mordo la mano per la rabbia che ho dentro, mi accorgo che mia moglie e i miei figli si gustano la scena. Ora vogliono sapere del mio comportamento. Mi calmo e trovo il modo di dare loro, una spiegazione convincente. Chiarita la situazione imbarazzante ritornano a letto mentre io esco sul terrazzo e, scuoto la testa per il disappunto. Osservo la strada che è desolatamente vuota, poi rido di gusto. Il ragazzo mi ha fatto fesso con una prestazione davvero magistrale. Rientro in sala sconfitto, mi verso altro vino e in buona pace ad ascoltare la musica. E’ vero, ho perso le entrate di quella giornata. Che cosa ci posso fare? Il mondo è pieno di ladri.
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