La noia è un ragno che cuce ragnatele nel cervello,
succhia meridiane con zampe di velluto giallo,
e il tempo —oblò sfondato— versa sabbie di piombo:
il domani è già ieri, fango che scivola a picco nel sonno.

Ogni minuto un becchino che scava fossi nel polso,
le ore mutano in larve, bozzoli di midollo prosciolto.
Guardo il soffitto: un affresco di muffa danza il fandango,
le crepe s’aprono a baci, lingue di smog antico.

Fuori, un merlo impagliato canta l’inno delle pietre,
il vento mastica foglie morte -bava di chimere infeconde.
La luce? Una lama opaca che sbriciola i muri in polvere di gesso,
e l’ombra, mendica oscena, s’incolla alla carne come un supplizio.

Eccola la vita: un carillon arrugginito che gracchia
la stessa nota, un re beota che gioca a dadi con la sua ombra.
Le dita tamburellano sul vuoto -rituale di ossa impazzite-
il respiro un mantice che gonfia solo buchi, voragini dipinte.

Penso a te, donna-eco, fantasma di un dialogo mai iniziato:
la tua voce è un’albicocca marcia nel cestino dell’estate.
Vorrei urlare, ma la gola è un pozzo di ragni paralizzati,
il silenzio si fa telaio, tesse sudari di monosillabi spenti.

La finestra è un occhio cisposo che fissa l’orizzonte in muta:
il sole, mela bacata, cade nel brodo delle nuvole rancide.
E tutto marcisce in bellezza, come un quadro di Arcimboldo:
gira il capo, e il mondo è un frutto vermicolato, un tripudio di scarto.

Ah, la noia! Architetta di deserti nel sangue,
ti scolpisci idoli di sale nelle vene, madonne di stagno.
Vorrei correre, ma le gambe sono colonne di cenere,
il cuore un orologio a cucù senza più uccelli né numeri.

Passa un cane claudicante -santo storpio del nulla-
lecca l’asfalto che brucia di febbre e oblivio.
Lo seguo con lo sguardo, pellegrino verso nessun luogo:
la sua zampa ferita scrive poemi nel fango, epitaffi per insetti.

In cucina, le formiche assediano una briciola di ieri:
esercito ordinato in guerra contro il nulla che avanza.
Io, generale inerte, osservo la battaglia dal trono di plastica:
vinceranno loro, divorando il passato. Io? Resto a guardare.

La radio sussurra notizie di un mondo che non sono io:
alluvioni, amori, astri -storie di un altro pianeta spento da deficienti.
Cambio canale: solo statistiche, vespri di elettroni impazziti e jingle per dentifrici.

Sul tavolo, un libro aperto si mangia le proprie pagine:
le parole paiono formiche nere in fuga dal senso.
Leggo una frase al contrario: "Il vuoto è pieno di noi",
e ridacchio, eco di un pazzo che parla a specchi incrinati.

Scrivo il mio nome sulla polvere: subito uno starnuto lo cancella;
lo riscrivo col sangue: la carta moschicida lo divora.
Sono un’icona senza altare, preghiera senza labbra,
un verbo in cerca di soggetto, aggrappato a un punto esclamativo.

Nel bicchiere, il vino è aceto -metafora troppo facile-
lo bevo lo stesso: la bocca è un teatro di ombre senz’ingresso.
Gocciola sul mento, lacrima di Bacco impazzito,
e il corpo, otto miliardi di cellule che applaudono al delirio.

Vorrei una carezza, ma la pelle è pergamena incatramata,
l’amore un gerundio disoccupato, un "amando" mai coniugato.
Bussano alla porta: è il postino con una lettera del 1892,
la apro: dentro, solo capelli di donna e semi di melograno.

Telefono a me stesso: "Pronto? Qui nessuno, torni domani";
la cornetta gracchia risate, un coro di rane nell’acquitrino.
Appendo l'anima all'attaccapanni. Il filo si trasforma in serpente, strozzo la mia voce:
il silenzio è un funerale di farfalle, ali inchiodate alla croce.

Accendo la TV: un uomo in frac canta l’eternità in playback.
Sullo schermo, pixel danzano la tarantola del caos.
Spengo tutto. Il buio è latte inacidito negli occhi,
e il pensiero -giraffa ubriaca- urta tutto prima che il soffitto e crolli.

La notte arriva con stivali di piombo, ladra di colori,
succhia il blu dal cielo, lo sputa in pozze di inchiostro.
Le stelle? Fori di proiettile in una lamiera lucida,
e poi questa fastidiosa luna stasera: un’unghia sporca che graffia i cumulonembi.

Mi guardo allo specchio: l’immagine è un’altra, mi fa la linguaccia,
le rughe sono fiumi in secca, solchi dove nidifica il nulla.
Sorrido: i denti cadono come petali di ortensia malata: raccolgo l’ultimo,
e sono più di quanti ne pensassero
le riviste patinate
di trent'anni fa.
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Profilo Autore: Nicola Matteucci  

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