Tu germoglio ed io serra madre. Ti espandi nel tuo provvisorio nido e manine, piedini e genitali, cominciano ad assumere forme dai contorni ben definiti. Ti nutri di me. Pensi, cammini, ridi con me e piangi le mie lacrime. Ammiriamo con emozione albe e tramonti e ci piace l'odore del pane appena sfornato. Adoriamo tutto ciò che è caldo. A volte ci avvolgiamo infreddoliti in enormi coperte metaforiche, dando vita ad immense e soleggiate distese di verde. Voliamo su campi fioriti e enormi girasoli volgendo lo sguardo verso di noi ci sorridono compiaciuti. Corriamo gioiosi fra caprioli, gazzelle, fino a cadere stremati su biondi giacigli di paglia che ci avvolgono in morbidi abbracci. Divoriamo tanti dolci che ci fanno prendere peso, ma a noi non importa perchè dopo un'abbuffata siamo più contenti. Durante questo meraviglioso viaggio condividiamo sentimenti, paure, ansie, emozioni. Siamo una bella coppia noi due. Questo stato di grazia di cui la natura mi ha fatto dono, ha amplificato le mie percezioni. Nulla è come prima. Sorrido, piango e sento sapori e odori mai avvertiti in precedenza. Questi sensi risvegliati dal torpore, si palesano sprigionando sensazioni sopite e mi sento sproporzionatamente sensibile, attenta e primitivamente coinvolta in un turbine di struggenti emozioni. La maternità ci rende persone migliori perché ci completa. Alcune donne poco coraggiose abbandonano i propri figli. Non puoi staccarti un arto e buttarlo nel pattume. Non è naturale. Noi due ci siamo e rimarremo uniti sempre. La gente ci sorride, ci fa sentire importanti. Siamo coccolati e quando ci guardano con tenerezza, noi siamo felici e ci sentiamo unici e invincibili. Oggi ti hanno fotografato e mi hanno detto che sei un maschietto. Che strana sensazione avere dentro di sè un corpicino col sesso diverso dal tuo. Le donne per natura sono abili a ricevere e contenere. Il pene ti penetra e tu gentilmente accogli i suoi semi che lasci germogliare dentro di te, avendo cura di custodire al meglio ciò che ti è stato donato. Che meraviglia la natura. Tu, da semplice virgulto quale eri, ora sei divenuto frutto e vita. Il tempo passa e ti espandi a dismisura. Non posso più contenerti. Sono pronta per accoglierti. Il latte è caldo. Ti aspetto. Ho paura e penso che anche tu ne abbia. Ora che dobbiamo separarci mi sento vulnerabile e provo un'infinità di emozioni contrastanti. Sento tanto dolore. Una mano mi penetra e fruga nel mio ventre. Rabbia, paura e poi un vagito, un pianto, tante risate, sorrisi, felicità e lacrime. Non sei più in me, ma fuori di me, sopra di me. Sei caldo, impaurito e incredibilmente piccolo. La luce abbagliante a cui non eri abituato, ti sta accecando e non sai nemmeno dove ti trovi, né perché. Piangi. Hai freddo e fame. Fra un po' ti nutrirai ancora di me. Sapientemente dovrai attaccarti al seno e surgere per saziarti. E' una sensazione nuova, ma appagante. Sei un piccolo guerriero che appena nato riesce a guadagnarsi il cibo con le proprie forze. Ciao combattente. Sei giunto al termine del viaggio più importante della tua vita. Impararerai a camminare, a parlare, a scrivere, leggere. Io ti accompagnerò durante il tuo cammino e ti sarò vicino. Asciugherò le tue lacrime e ascolterò le tue paure. Sarò tua compagna e consigliera . Se saprai e vorrai ascoltarmi ti insegnerò ciò che ho imparato. Alcune scelte dovrai farle da solo e dai tuoi errori imparerai. Ti farò da guida e ti insegnerò a guardare, ragionare, scegliere. Poi ti lascerò solo e tu rammenterai tutto ciò che hai appuntato nella tua memoria, attingendo nozioni dal diario della vita che insieme abbiamo scritto. Percorrerai viali alberati, strade buie, sentieri illuminati. Vincerai medaglie e assaporerai sconfitte. Cammina sempre con fiducia. Volgi lo sguardo verso l'alba, ma non abbatterti mai al tramontare del sole. Non vergognarti del tuo pianto, ma abbi compassione per chi vuole pietrificarti il cuore. Costruisci dighe per arginare straripamenti, attraversa fiumi e impara a remare. Leccati le ferite senza compiacertene troppo e cammina. Vai avanti e non fermarti mai. Assapora la vita che ti ho donato e fallo con amore, fiducia e coraggio. Cadi e rialzati. Fermati per riposare e poi continua a viaggiare. Quando sarai stanco di camminare, dispiega le ali e vola.

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Profilo Autore: Giovanna Balsamo  

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Non cercavo amore, affetti o altro. Viaggiavo per le vie del mondo come uno che non vuol sentire, né vedere. Volevo trascorrere il mio tempo nell’effimero, godendo solo di quel che il mondo offriva. Ma non è possibile che l’uomo non cerchi niente. Da quando è nato, l’esplorazione, la ricerca e quindi l’acquisizione sono state le sue prime iniziative. Probabilmente anch’io mi sono assoggettato a queste prerogative, solo che non mi piaceva riconoscerlo e mi rifugiavo nel mio mondo, pieno di ricordi e di favole. Un sognatore…distaccato. Non che mi dispiacesse…anzi ! Mi potevo trasformare al bisogno nell’uomo duro, fascinoso, gioviale, divertente a secondo delle esigenze che mi si proponevano. Pensai addirittura di amarmi da solo e non solo perché il cuore aveva smesso di battere o avesse deciso di farlo, quando, memore di antiche delusioni, aveva smesso di credere in se stesso. Per questo non mi ero accorto di lei, non in modo determinante. E invece avrei dovuto capire tutto dalle sue parole, dai messaggi “subliminali” che mi mandava mascherati da scherzi, frizzi e lazzi, ma che andavano dritti al centro del bersaglio, mentre io, credevo di menare la danza in un gioco in cui  ero perdente prima di cominciarlo. Aveva deciso tutto lei e, con grande intelligenza, aspettava la mia presa di coscienza. Non forzò nulla, lasciò che tutto avvenisse naturalmente, perché doveva avvenire ! Per fortuna caddi nella sua trappola e ripresi quel vigore dei primi anni della mia gioventù ed ora sogno ad occhi aperti, senza nevrosi, senza doveri, senza ossessioni, di essere me stesso, realmente io. Lei, ora e qui e mi guarda divertita, quasi aspetti una risposta alle precise domande che i suoi occhi mi pongono. Le dirò che ha rigenerato un cuore arido, che mi ha recuperato dal limbo dove mi  ero nascosto, le dirò…le dirò semplicemente : Scusa, tesoro, avevo il cuore altrove !
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Profilo Autore: Bronson  

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Il sig. Smith un uomo di mezza età, un attore, un comico, faceva ridere tutta la sua cittadina. Faceva ridere chiunque incontrava. Gli amici e i parenti adoravano il suo modo di fare buffo e le sue battute.
Portava sempre con sé la sua valigetta rossa, una valigia ormai logora, fatta di cartone e chiusa tramite un grande elastico. Dentro di essa c’era il mondo! C’erano i costumi di scena, i suoi mille copioni, le foto della sua figlia adorata e della sua cara mogliettina, ormai defunta da più di vent’anni ma che lui non aveva mai potuto dimenticare….
Una sera il sig. Smith esce da un teatro di fretta, voleva andare a casa al più presto, era stanco, esausto dalle prove precedenti un grande spettacolo che doveva fare nel week-end per beneficenza a New York. Non era mai uscito dalla sua piccola città, era preoccupato di andare a New York ma anche contento di fare qualcosa di diverso. Aveva comprato una macchina fotografica nuova per fotografare i grattacieli di cui tanto aveva sentito parlare. Ma ora la sua priorità era andare a casa a riposare. Sta per attraversare la strada quando una gip incomincia a sbandare e a girare su se stessa, il sig. Smith non sa cosa fare, se tornare in teatro, chiedere aiuto, attraversare di corsa la strada, o aspettare. Decide di aspettare davanti all’ingresso del teatro… ma tutt’a un tratto la gip gli si catapulta addosso.
Il sig. Smith urla e poi sviene. Giace a terra sembra morto. Tutte le persone che hanno visto la scena e i colleghi del teatro gli si avvicinano, chi piange, chi urla, chi chiama l’autombulanza, chi prega… Il conducente della gip a parte qualche graffio sta bene ma si sente terribilmente in colpa per quello che è successo. Aveva perso il controllo della gip a causa della strada ghiacciata.
Dopo qualche ora il sig. Smith si sveglia in ospedale, nota che aveva un braccio ingessato e la testa bendata. C’era un’infermiera vicino a lui. Vuole chiedere cosa sia successo, (perché lui non ricordava assolutamente nulla dell’accaduto) ma la sua gola non emette nessun suono, benché si sforzasse, nulla, nessun suono, e così si spaventa e inizia a piangere disperato, si strappa la flebo, vuole andare a casa, l’infermiera chiama immediatamente il medico.
Il medico spiega al sig. Smith che ha avuto un trauma cranico e ha un piccolo ematoma nel cervello nella zona del linguaggio, ma quando si riassorbirà potrà nuovamente parlare. E’ solo questione di tempo, e di pazienza.
Arriva la figlia, gli amici e tutto il paese, e il conducente della gip a trovarlo in ospedale. Tutti gli mostrano affetto e gli stanno vicino ma lui è devastato, è distrutto dal dispiacere che non può parlare, non può più farsi una bella risata e non può più far ridere nessuno. Il suo mondo ora è il silenzio. Ha paura che la voce non torni più. E per un attore comico questa è la peggiore tragedia che gli potesse capitare.
I giorni passano lenti, dopo un mese e una settimana toglie il gesso, un po’ di fisioterapia e il braccio va a posto, ma la voce non torna. I medici gli dicono di pazientare ancora, l’ematoma si è riassorbito, la voce dovrebbe tornare, è questione di giorni, lo rassicurano.
Gli amici pensano che se prenderebbe di nuovo uno spavento come il giorno dell’incidente la sua voce potrebbe tornare e così fanno di tutto per farlo spaventare, usano ogni mezzo, richiamano persino il signore della gip e ricreano l’incidente, ma nonostante tutto il sig. Smith rimane muto, muto come un pesce.
Il povero sig. Smith si incupisce ogni giorno di più, è senza lavoro, è senza una speranza, e passa le sue giornate a bere e a dormire, le bollette e i debiti aumentano, e lui si sente finito, fnito come uomo, come padre, come attore.
Ma un giorno alla figlia gli viene una grande idea.
Va di corsa dal padre e gli dice: “Papà, perché non fai il mimo, non c’è bisogno della voce per fare questo lavoro!”. Lui inizialmente boccia l’idea della figlia, ma poi ci pensa sù e dice a se stesso: “Provare non costa niente”. E così scrive al suo manager e caro amico di vecchia data di questa idea. E il manager l’accoglie al volo.
E così il sig. Smith di nuovo con la sua valigetta rossa viaggia per la sua cittadina e nelle città limitrofe e riscuote più successo facendo il mimo che prima quando era un comico.
Decide di arricchire i suoi spettacoli anche con piccoli numeri di prestigio. E questo alla gente piace. I giornali parlano di lui. E il suo successo è sempre più in salita… Incomincia ad andare in giro per il mondo, New York, Madrid, Parigi, Atene, Roma… Tutti conoscevano il sig. Smith!
Era felice, molto felice, appagato per il suo nuovo lavoro, ma gli mancava la sua voce, gli mancava farsi una bella risata, canticchiare sotto la doccia…non sopportava l’idea che sarebbe rimasto muto per sempre. Tra una tourné e l’altra andò da ogni tipo di dottore, logopedisti, foniatri, neurologi, psicologi ecc. ecc. Per avere una speranza, una soluzione. Prese ogni tipo di medicinale ma la voce sembrava ormai perduta.
Tornò poi per un breve periodo nella sua cittadina, ci fu grande festa tutti lo accolsero, ma lui era così triste e non apprezzò nulla di quello che potessero fare per lui. Maltrattò tutti. Voleva rimanere solo.
E lo accontentarono, nessun amico lo andò più a trovare, nessun cittadino lo salutò più, tutti pensarono che peccava di orgoglio, che il successo gli aveva dato alla testa! L’unica che gli stava vicino era la figlia, capì che dietro il comportamento di suo padre c’era tanta sofferenza.
Un pomeriggio uscì vestito elegantissimo, doveva andare ad un matrimonio, non aveva alcuna voglia di andarci, il suo passo era così lento e svogliato. A metà strada decise di tornarse indietro, ma quando attraversò la strada, un trattore quasi lo investì, frenò a soli 2 centimetri da lui, e il sig. Smith urlò, urlò a gran voce, incominciò a imprecare e a sbraitare contro il contadino alla guida del trattore. Poi all’improvvisò si inginocchiò e scoppiò a piangere, perché la sua voce era tornata e così abbracciò il contadino, lo baciò sulle guance, gli baciò le mani, lo ringraziò, cominciò a saltare, a urlare, sembrava impazzito, e se ne andò per la sua via.
Il contadino pensò fra sé e sé:
“Io sarò un contadino
e non ho di certo un cervello fino,
ma questo cittadino è un po’ sciocchino!
Lo stavo per investire
e lui prima inveisce
e poi si mette a saltare e a gioire?!?
Io volevo chiedergli perdono
ma in un attimo in mezzo alla strada rimasto solo sono.
E’ sparito,
quel pover uomo
dove sarà finito?”
Poi vide a terra la valigetta rossa, spaccata a metà, vide le foto, i copioni e capì che era il grande mimo Smith e comprese anche perché aveva avuto quella reazione. Perché le era finalmente ritornata la voce! E pensò: “come ho fatto a non riconoscerlo?!?”
Il sig. Smith una volta a casa, telefonò a tutti, proprio a tutti, parenti, amici, conoscenti… diede a tutti la buona notizia. Poi si mise a cantare, a recitare, a urlare, a ridere da solo delle sue battute … era euforico come non lo era stato mai!
Ma ad un certo punto sentì dodici rintocchi della campana della cattedrale, ed esclamò: “E’ mezzanotte, nooo, mi sono dimenticato del matrimonio, dovevo fare il mimo questa sera, noooo!”. Chiamò subito il suo manager e gli disse: “Mi scusi sig. Denver, ho recuperato la voce, ora posso parlare, ma a causa dell’euforia ho dimenticato che dovevo venire al matrimonio di sua figlia. Mi può perdonare?”. Ma il manager rispose infuriato: “Mia figlia sapeva che doveva venire un mimo questa sera al suo matrimonio, e non è venuto, che figura ho fatto davanti a lei e a tutti gli invitati! Lei è licenziato. Ha fatto un grande errore questa sera! Non può porvi rimedio alcuno”.
Il sig. Smith disse: “Ma ha compreso che ho di nuovo la mia voce e posso fare qualsiasi cosa, posso di nuovo recitare, sarò non solo un mimo ma di nuovo un grande attore?”.
Ma il manager replicò: “Lei è finito come attore e mimo, per l’affronto che mi ha fatto, non lavorerà più, nessuno lo assumerà più! Parlerò solo male di lei”. E gli chiuse il telefono in faccia!!!
Il sig. Smith con mezzo sorriso esclamò: “Beh, non si può avere mica tutto dalla vita!”.
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Profilo Autore: Maddalena Clori  

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Giulia, ragazzina dai capelli rossi e con grandi occhi verdi, esile, fragile, un po’ bruttina.

Aveva un sacco di amici e amiche.

Era bello stare in sua compagnia. Trascorrere dei bei momenti a ridere, a scherzare insieme a lei.

Tante cose sapeva fare. Era creativa. Hobby ne aveva tanti! E molti sogni nel cassetto…

Un giorno incominciò a mangiare così tanto da scoppiare …

Passò del tempo. Era così ingrassata che dovette cambiare tutto il guardaroba, non le entravano più i suoi bei vestiti.

Giulia si rese conto che doveva dare una svolta positiva alla sua vita….

Decise di far qualcosa.

E così si alzava la mattina presto per correre nel parco. Ritornava in fretta a casa a prendere i suoi libri per andare a scuola. Nel pomeriggio i compiti e poi faceva chilomentri in bicicletta.

Non si arrendeva, voleva tornare l’esile ragazzina.

Molto tempo è passato. Il suo corpo era cambiato, un po’ di chili li aveva persi.

Era stanca ma felice!

La scuola finì e Giulia si impigrì. Stava sempre sul divano a guardare la T.V., e riprese a mangiare. Le sue porzioni erano sempre più grandi!

Arrivò settembre e Giulia a scuola non voleva più andare. Non aveva il coraggio di farsi vedere così dai compagni e dagli insegnanti.

I genitori la convinsero che la scuola doveva frequentare.

Giulia col passare dei giorni si chiuse sempre più in se stessa. Pensava che non sarebbe più tornata ad essere né magra né la ragazza spensierata e allegra di prima.

Un giorno in biblioteca si sedette al suo fianco un ragazzino (anche lui ciccione). Era moro e ricciolino. Con le sue lentiggini era proprio simpatico.

Si chiamava Angelo.

Giulia si sentì attratta da lui. Era bello che qualcuno l’ascoltava.

E diventò ben presto una grande frequentatrice di quella biblioteca!

Angelo e Giulia si frequentarono sempre di più. Erano così allegri, spensierati. Ben presto tutto il paese li soprannominò: “200 chili di simpatia”.

Facevano i compiti insieme, giocavano, scherzavano, andavano al cinema.

Erano inseparabili ormai.

Erano così uguali!

Angelo un giorno d’estate confidò a Giulia che voleva dimagrire, non si era mai visto magro. Aveva avuto sempre sin da bimbo il problema del sovrappeso ed era desideroso di vedersi almeno per una volta diverso. E poter rallegrare anche i suoi genitori, che tante volte per il suo bene gli avevano detto di dimagrire. Giulia gli disse che era una buona idea e che lo avrebbe aiutato e non solo, avrebbe rincominciato anche lei la dieta!

E così ogni giorno ginnastica, porzioni di cibo sempre più piccole… i due non scherzavano mica, stavano facendo sul serio!

Dimagrirono. La loro lotta contro il sovrappeso ebbe risultati.

Giulia ritrovò la stima di se stessa e scoprì cos’era il vero amore. Per lei Angelo era il principe azzurro.

Per Angelo lei era la sua dolce Principessa.

Angelo e Giulia col tempo si sposarono.

Oggi hanno due figli e la sera rimboccando le coperte ai loro piccoli raccontano la storia dei due ciccioni!

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Profilo Autore: Maddalena Clori  

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Salve! Ho iniziato a scrivere questo racconto da un po' di tempo, in un particolare momento della mia vita e per questo ho deciso di pubblicarlo solamente adesso. Se questo capitolo sarà di vostro gradimento, posterò i successivi.



Il treno avanzava e il cane piangeva. Giaceva assopita la ragazza sui sedili del vagone di coda; trasognante, speranzosa e incerta. In un anno aveva girato l’intero mondo: giù per il rovente Kenya e su per le Langhe; col suo povero cagnetto dal quale aveva assunto l’espressione sognante. Luogo per luogo la sua vita assumeva, ogni volta, una forma diversa. Il suo fiume in piena aveva incontrato numerosi ostacoli- rocce ammassate, alberi sradicati e persino rifiuti gettati dall’uomo moderno-; ma le sue acque sguizzavano or ora su verso il cielo, per poi gettarsi di continuo in una putrida coltre di veleno. Come una lastra di vetro rotto, si contorceva dal dolore il povero cagnetto; con la speranza che le sue ossa avessero fatto una fine migliore. Le intere giornate passate sull’orlo di un freddissimo marciapiede newyorkese, gli avevano intricato le ossa, recandogli una sofferenza maggiore; più di quanto qualsiasi mentecatto potesse credere. E la ragazza, lei coi suoi occhi cristallini, per simbiosi animalesca, si raggrovigliava come il filo di una corda annodata in fretta. La natura là fuori dormiva estasiata e la sua notte, col pallido chiarore assassino invocava i tormenti della mente, pregando loro di soffocare gli indomiti cunicoli dei più angosciosi essere umani. Le luci principali si spensero, quelle d’emergenza ripresero vita e una calma apparente invase i vagoni, nonostante il martellante rumore del vecchio Intercity. Non si ha più niente da dire dopo 12 ore di viaggio, si esaurisce anche il più banale e frivolo dei discorsi. Anime sconosciute che dialogano solo per circostanza, per arrampicarsi alla vita degli altri con il solo scopo di non annegare tra le acque dei propri tormenti; questo è il vero spirito di sopravvivenza. E quando tutto tace, quando la notte si scaraventa vorticosamente sui finestroni del treno, non rimane che farla entrare, ma considerandola sempre un’ospite inattesa. Spicca il volo come un predatore dagli artigli ormai poco solcanti, segnati dal tempo e dal dolore. Non desidera una preda; ne brama migliaia, milioni, miliardi, una specie intera. Una infinità di uomini pronti a farsi percuotere le budella. Questo, al famelico predatore non basta;  si trasforma in un insaziabile licantropo pronto a trangiugare fino all’ultima goccia di aspro, acre, amaro e velenoso sangue.

Tutte le prede giacevano inerte sulle poltrone del treno, mentre il sole prendeva ad albeggiare, tinteggiando il cielo nuvoloso con una vernice vagamente dorata. Scaraventati sull’orlo del precipizio, dove l’anima è lucente a tratti, si apprestavan a cominciare un nuovo giorno, col solo scopo di peregrinare verso nuove mete. Povere creature impavide e odiose! Gli bastava notare un barlume vita per non perire al loro inconsistente futuro. E mentre il nuovo dì prendeva pian piano forma, la ragazza si soffermava ad osservare il vento, che di consuetudine muoveva le foglie appassite e pallide, scaraventandole da una parte all’altra del ponte nebbioso. Il suo nome era Aurora. Ella era una ragazza come tante altre, ma altresì diversa da quelle stesse altre. Queste ultime erano tristemente uguali; stampate con lo stesso inchiostro e la stessa carta ruvida, di quella che si trova a basso costo e risulta essere per questo maggiormente venduta .Era incredibilmente strana, eccentrica, o per meglio dire egocentrica e addirittura megalomane; di gran lunga differente dai modelli che la società proponeva. Aveva tinto i capelli con ogni tonalità del lilla, da quello grigiastro smog a quello violaceo - lo stesso colore delle profumate viole; era incantate dal profumo di quei penetranti fiori; le rievocavano la  morte e paradossalmente le considerava un turbine di vita-. Per un considerevole periodo della sua esistenza aveva desiderato portarli azzurri come il cielo, ma “sembra troppo maschilista”, ripeteva spesso tra sé e sé! E una femminista come lei mai avrebbe potuto compiere un sacrilegio tanto sovraumano. Quello stesso identico cielo, dipinto di lilla, era  senza dubbio alcuno, di gran lunga  più bello. Anche il cielo, nonostante la desinenza maschile, secondo la sua arguta mente doveva essere di sesso femminile; era immensamente leggiadro e infinitamente bello, così come lo era ogni singola donna. Aurora amava catturare con la sua camera ottica- rovinata dal tempo e dai sogni vani- quei momenti, come ogni romantico tramonto, durante i quali il cielo si tinge di rosa per poi candeggiarsi, solitamente al crepuscolo, di quelle tonalità di lilla che tanto adorava; le stesse dei suoi variopinti e leggiadri capelli setati.

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Profilo Autore: Anna Santoro  

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Una bambina di 5 anni e il suo cappottino blu.

Percorreva un viale alberato accompagnata dalla nonna. Credeva fosse un giardino ma non era così. Tutti piangevano. Tutti l’abbracciavano. E lei non capiva cosa stava accadendo. Poi vide una fossa, e le dissero che suo papà e sua mamma sarebbero andati a riposare lì. Col tempo Chantal capì cos’era la morte.

Che tristezza cambiare casa e andare a vivere con la nonna. Alimentazione e abitudini diverse. Era molto più noioso che vivere con i genitori.

Era il 1960.

Quando compì 6 anni, andò a scuola. In classe tutti le volevano bene. Si ritrovò in una grande famiglia. E fu lì che le fu insegnato l’ottimismo e l’altruismo. Chantal era sempre allegra donando un sorriso a tutti. Aiutare chiunque fosse in difficoltà era nella sua indole. Qualcosa di prezioso che l’avrebbe accompagnata nel suo cammino. Però come era triste vedere i bimbi all’uscita correre incontro a mamma e papà! Lei aveva solo la nonna che la viziava un po’.

Chantal si affezionò molto a sua nonna anche se a volte le mancava la sua mammina e il suo papà. Quando nessuno la vedeva andava in cameretta a piangere. Si chiedeva: “Perché proprio a me dovevano morire i genitori?” malediva quell’incidente stradale. Domande su domande…. Poi si asciugava le lacrime e cercava di vedere il lato buono delle cose. Pensava: “C’è chi sta peggio di me, che è solo al mondo. Io almeno ho la nonnina che mi vuole tanto bene!”.

Un giorno Chantal si svegliò tardi. Si vestì di corsa. Non voleva arrivare di ritardo a scuola. Era un giorno importante, aveva il saggio di danza. E non vedeva l’ora di indossare il suo vaporoso tutù….

Andò in cucina.”Dov’è la nonna?”, si domandò. La colazione sul tavolo non c’era. Pensò: “Strano, oggi la nonna fa la pigra! Vado a svegliarla per prenderla un po’ in giro!!!”.

La chiamò, urlò il suo nome ma…. Niente. Nessuna risposta.

Il cuore stanco della nonna si era fermato.

Di nuovo Chantal col suo cappottino blu, percorreva quel grande giardino, e vide calare in una fossa la bara della nonna.

Fu un immenso dolore.

Si sentiva come un puntino in mezzo ad un grande quadro.

L’amarezza il dolore, e la delusione si fecero più grandi quando nessun parente si volle prendere cura di lei. Chantal fu mandata in un orfanotrofio.

Quando entrò nella stanza che le era stata assegnata, vide che non era sola, c’erano ben 10 lettini! I muri scrostati e la muffa. Che squallore! Voleva scappare da quella realtà.

Pensò: “Come potrò resistere qua dentro?”.

Arrivò la notte e Chantal in quel lettino pianse tutte le lacrime che aveva. Per molte notti fece così. Ma poi decise di consolare gli altri che erano lì, forse più tristi di lei. Regalando l’unica cosa che aveva: un sorriso.

Aiutando gli altri avrebbe sofferto un po’ meno della sua triste condizione.

Un giorno chiese se poteva avere dei pennelli e degli acquarelli per dipingere.

Dipingere l’aiutava a volare con la fantasia... Nei suoi ritratti lei era sempre al mare o tra le nuvole, elegante e altera. Mentre nella realtà era vestita di cenci.  

Alcuni bimbi andarono via, erano stati adottati. Ma lei no.

Nonostante avesse un carattere stupendo, solare, nessuna famiglia la prese con sé, ma lei non perse le speranze.

Quando compì 18 anni le dissero che doveva andare via. A un’altra casa doveva andare, in una famiglia ricca, per fare la baby-sitter.

Era felice di lasciare l’orfanotrofio.

In quella casa vide finalmente una famiglia al completo! Le bimbe erano dolcissime.

Chantal amava i bambini e subito le conquistò.

Ben presto si affezionò a tutti i componenti di quella famiglia. Anche al maggiordomo e alla cameriera che divennero suoi amici.

Passarono 2 anni, anzi volarono 2 anni!!!

Chantal era amata e apprezzata. Desiderava che quella famiglia fosse la sua.

Un giorno arrivò Antony, era un ragazzo di colore. Carino. Era il nipote del maggiordomo. Antony aveva un brutto carattere ed era pessimista.

Era stato assunto dalla famiglia come autista.

Chantal voleva vedere Antony sereno e felice.

Ben presto capì che anche lui aveva sofferto molto nella vita e che era stato spesso deriso per il colore della sua pelle.

Chantal lo aiutò a vedere le cose diversamente, gli insegnò a sorridere alla vita e a vedere il lato buono delle cose.

Scoprì che Antony aveva un sogno da realizzare, voleva diventare dottore, precisamente un pediatra.

Ma non aveva il coraggio di iscriversi all’università. E poi si sottovalutava.

Chantal gli disse che bastava un pizzico di volontà e sarebbe riuscito. Doveva provare!!!

Antony col tempo si convinse. Quindi di giorno lavorava come autista e di notte studiava. Diventando sempre più sicuro superando uno, due, tre esami…..

Piano piano arrivò il giorno della Laurea.

Aveva raggiunto il suo obiettivo.

Chantal era felice per lui. Non avendo molto da donargli gli regalò un suo dipinto. Un giorno alzandosi più tardi del solito udì che la famiglia era riunita in salotto, parlavano con Antony.

Chantal non resistette e si mise ad origliare, e sentì una frase; Antony diceva che si era innamorato di una ragazza. E che il giorno seguente avrebbe parlato con lei.

Chantal si sentì morire, era gelosa e pensò: “si sarà innamorato di una universitaria!” Corse in camera a piangere. Quanto avrebbe voluto essere lei la fortunata ragazza!

Si rese conto che era innamorata di Antony.

La tristezza le fu di compagnia per tutta la giornata. Tutti se ne accorsero, e le chiesero cosa aveva, e lei rispondeva: “Non sto bene, passerà”.

L’indomani Antony bussò alla camera di Chantal, lei aprì la porta, lui si inginocchiò, ponendogli tra le mani morbide un pacchettino.

Che sorpresa!!! Conteneva un anello!

“Vuoi sposarmi?” le chiese.

Chantal pensò: “Ecco chi era la ragazza di cui parlava ieri!!!”.

E a gran voce gli rispose: “ Sììììììì ”
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Profilo Autore: Maddalena Clori  

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Non ho mai nutrito particolare simpatia per le giornate di pioggia, specialmente se sono costretto a passarle nel mio paesotto desolato. 

Quel giorno, mercoledì 10 ottobre, la pioggia cadde imperterrita. La sua triste musica si fece udire già dalla sera prima; segno che l'autunno aveva disteso il suo manto sulla superficie terrestre. L'anno era il 1990 : triste decennio in cui ebbi il "dispiacere" di veder cambiare per il peggio le mode, la musica  e il cinema. Tutta la magia degli anni precedenti sembrò scemare ai miei occhi, asciando posto alla banalità più sconcertante.  

Uno spiraglio di luce si aprì quando in mattinata, durante la pausa pranzo a lavoro, lessi un articolo su Repubblica. I miei occhi viaggiarono veloci leggendo  quelle righe : "La città di Milano rende omaggio ad una delle più grandi attrici italiane". Giulietta Masina si trovava a Milano per l'inaugurazione del  "Teatro Giulietta" in via Marghera 28.

Il sogno di una vita : la mia attrice preferita a 30 km da casa mia! Non esitai un attimo : decisi di assistere alla cerimonia il cui orario di inizio era schedulato per le 21.30. 

Il costo del biglietto era di 60.000 lire, ma i soldi all'epoca non erano un problema e per vedere Giulietta ne avrei spesi anche duecento. Avendo svolto il primo turno in litografia, la buona sorte giocò a mio favore concedendomi pomeriggio e serata liberi. 

Una volta a casa, rovistai tra i miei abiti più eleganti, decidendo infine di indossare una giacca monopetto a tre bottoni, camicia bianca, cravatta nera,  jeans scuri e un paio di scarpe derby in pelle ereditate da papà. Portai con me una penna e una foto busta del film "Le Notti Di Cabiria", sperando che Giulietta depositasse la sua firma su quel pezzo di storia pagato una fortuna ad una mostra di reliquie cinematografiche. 

Le lamentele di mia moglie Iris non tardarono ad arrivare. Le telefonai in ufficio poco dopo le 16.00 informandola dell'evento. 

Entusiasta le dissi che sarei passato a prenderla in ufficio dopo le 17.00, ma lei rispose che doveva trattenersi per gli straordinari e che sarebbe rincasata tardi. 

"Ma è proprio necessario che tu vada? C'è da fare la spesa, far sviluppare le foto del mare... ". Iris non simpatizzava molto i "miei colpi di testa", ma  in fondo sapeva quanto era importante per me vedere Giulietta.

Dopo aver ascoltato le mie giustificazioni che somigliavano tanto a quelle di un bambino desideroso di un dolcetto, fece un sospiro e disse : "Ok, ci vediamo quando torni".  

Via Marghera è la zona dei ristoranti : certo oggi è un po’ cambiata rispetto ad allora, ma l'aria intrisa di romanticismo e passione è rimasta. 

Il Teatro Giulietta si presentava decisamente maestoso. La facciata esterna in stile neoclassico, severa e lineare; al centro un portico a terrazza sostenuto da due pilastri lineari, al di sopra un piano attico terminante con un timpano retto da colonne binate e da lesene. L'interno si fece apprezzare ancora di  più : nella curva a forma di cavallo si trovavano diversi ordini di palchi e camerini; un grande lampadario con ottantaquattro lumi a petrolio appeso al centro del soffitto, le decorazione interne disegnate secondo il gusto neoclassico e un immenso palcoscenico.

Una fila interminabile padroneggiava all'ingresso principale, formata per la maggiore da gente di mezza età. Vi erano anche giovani coppie, ma ebbi modo di  constatare che sicuramente ero la persona più giovane presente. 

Dopo un attesa interminabile, giunsi finalmente all'ingresso della platea dove un signore baffuto in frac strappò la superficie del mio biglietto (acquistato poco prima alla biglietteria principale) assegnando il mio numero di poltrona. 

L'adrenalina scorse puntuale nelle mie vene alla vista di quella stupenda platea che sembrava luccicare in ogni angolo. Avvertendo un leggero tremolio alle gambe, mi accomodai sulla confortevole poltrona di velluto rosso. La visuale da quel punto era abbastanza buona; fortunatamente la mia vista allora non  era ancora incerta. Cercai di scorgere qualche personaggio importante tra il pubblico, ma tra tutti quei capi grigio scuri e quelle pettinature a la "Maria Antonietta" non notai nessuno. 

Sul palcoscenico era stato allestito un tavolo lungo circa quattro metri con diverse sedie. Il tavolo era ricoperto da una enorme rivestimento rosso che permetteva al pubblico di scorgere la sua raffinata eleganza. Osservando le intrinseche decorazioni presenti nella stoffa, mi sfiorò il dubbio che tali meraviglie fossero  fatte d'oro.  Sullo sfondo risplendeva una gigantesca immagine di Giulietta nei panni di Gelsomina, la quale insieme a Cabiria fu uno dei personaggi più amati a livello mondiale interpretati dall'attrice.

Finalmente su quell'immenso palco fece ingresso un uomo di bassa statura, dalla evidente calvizie e dall'abito raffinato : Moraldo Lombardi, ideatore e  proprietario del "Teatro Giulietta". 

Consumati i soliti convenevoli, Lombardi introdusse Giulietta Masina. Il tema de "La Strada", scritto da Nino Rota, echeggiò in tutto il teatro tra la tempesta di applausi dalla durata di mezzo minuto. Tutti i presenti si alzarono in piedi ad applaudire Giulietta la quale appari' emozionata. Vestiva una camicetta bianca adornata da numerosi brillantini e una lunga gonna nera. I capelli minuziosamente pettinati e cotonati, orecchini tondi d'oro e una argenteria invidiabile. Il volto, segnato dalle rughe, possedeva ancora quella particolare bellezza; così come lo stupendo sorriso : pregio a me carissimo. Nonostante i tacchi alti delle sue scarpe nere, mi apparve decisamente bassa; come me la ero immaginata per anni. 

Provai un vortice di emozioni nel vederla congratularsi col pubblico, pensando : "Finalmente ho realizzato uno dei miei sogni : vedere dal vivo Giulietta Masina".

Applaudii e sorrisi come tutti i presenti, sperando che Giulietta puntasse lo sguardo verso di me per poterle trasmettere tutte le emozioni che provai  guardando "La Strada". 

"Grazie, grazie a tutti". Disse Giulietta al microfono passatogli da Moraldo Lombardi. Udire la sua voce fu stupendo come quando la sentii per la prima volta nel film "Giulietta Degli Spiriti"; calda, confortevole, squisitamente materna.  

Lombardi la invitò a sedere. Dopo aver presentato gli altri ospiti della cerimonia seduti al tavolo, ovvero critici cinematografici e giornalisti dei quali  non ricordo neanche il nome, Giulietta prese parola. Migliaia di occhi puntati su di lei. 

Giulietta espresse il suo amore per Milano, nella quale aveva vissuto per un periodo e anche per la zia di origini milanesi con la quale visse a Roma. Si sentì profondamente onorata del tributo donatole, esprimendo il suo amore per il teatro. 

Subito dopo incominciò a narrare la sua carriera cinematografica, soffermandosi particolarmente all'uomo più importante della sua vita : Federico Fellini. 

Ascoltai ogni singola parola di Giulietta, sperando che non finisse mai di parlare.  

Dopo circa quarantacinque minuti, per mia tristezza, l'inaugurazione giunse al termine.  L'uscita di scena di Giulietta fu accompagnata da applausi assordanti

di maggiore durata rispetto a quelli del suo ingresso; nelle mani reggeva fiera una targhetta donatagli da Lombardi che annunciava l'inaugurazione del teatro. 

I flash delle macchine fotografiche fecero risplendere il suo volto senza sosta mentre lei si allontanò dal palco con numerosi inchini. 

Vidi scomparire la sua adorabile figura che agitò la mano in segno di saluto.  

"Ciao Giulietta". Pensai soddisfatto di averla finalmente vista udendo le sue dolci parole. 

La platea brulicò di persone intente a raggiungere l'uscita; in testa vi erano fotografi e giornalisti (i quali si erano aggiudicati le prime file) ansiosi di intervistare Giulietta per scrivere un lungo e invitante articolo. Facendomi spazio tra la folla, giunsi nei pressi della biglietteria dimenticando per  un attimo quanto odiassi i luoghi affollati.  

Un'accozzaglia di telecamere e microfoni si era radunata nei pressi dell'uscita : i giornalisti stavano intervistando Giulietta, dandosi spintoni e sfoggiando domande a raffica alle quali non le fu concesso il tempo di scegliere a quale rispondere per prima. Alzandomi sulle punte dei piedi la vidi rispondere cortesemente, felice nonostante l'assedio dei giornalisti la stava facendo quasi scomparire. Al suo fianco vi era Federico Fellini, anche lui stretto nella morsa.

Fellini era un uomo corpulento, mastodontico che superava il metro e ottanta di altezza. Le spalle larghe e il torace me lo fecero apparire ancora più enorme di quanto in realtà fosse.

 Accanto a Giulietta appariva come il suo angelo custode, emanando un caloroso senso di protezione. Nonostante non amasse particolarmente le cerimonie e i ricevimenti, fu fiero di assistere all'inaugurazione e della carriera di attrice di sua moglie, la quale lui stesso fece fiorire. 

Scortati dai propri agenti, i coniugi Fellini si recarono verso l'uscita ancora inseguiti dai fotografi. La mia speranza di stringere la mano a Giulietta e  farmi firmare la foto busta, stava ormai scemando. 

"Hey! C'è Anitona!!!". Gridò un aspirante giornalista dal corpo rachitico togliendosi la penna dalla bocca. 

Ormai Giulietta non interessava più, le lasciarono raggiungere la macchina a braccetto di Federico; ora telecamere, flash e cascate di domande avrebbero  torturato lei : Anita Ekberg. 

Una visione celestiale : stupendamente giunonica, divina; l'espressione massima della naturalezza femminile. Certo, nessuno sfugge ai segni inferti dal tempo, ma Anita apparve immensamente bella nei suoi lunghi capelli biondi e nel suo elegante e lunghissimo vestito nero, il quale credevo fosse quello che indossò  ne "La Dolce Vita"... ma non poteva essere!

Anita stava a fianco di Marcello Mastroianni; sempre raffinato ed elegante, portava un cappello in testa : look che alcuni dicevano avesse ereditato da "8 1/2", altri per coprire la calvizie imposta da Fellini per interpretare Fred Astaire nel film che vedeva Giulietta nel ruolo di Ginger Rogers, appunto "Ginger e Fred".

Non so perché, ma in una delle mie fantasie ho sempre immaginato Mastroianni e la Ekberg cenare insieme al ristorante. Marcellino intento a gustare un gigantesco piatto di cozze e Anita che lo osserva divertita con un piatto fumante di spaghetti al pomodoro. Non sono per niente misteri l'appetito vorace di Mastroianni e il suo fascino verso le donne. 

Altre domande vennero poste e altre foto vennero scattate : ora era il turno di Anita e Marcello. La ressa rese impossibile avvicinarsi anche a loro.

Felicissimo di aver visto cinque pilastri del cinema italiano, ma soprattutto di aver visto Giulietta, decisi di lasciare quell'immenso teatro. 


2.


La pioggia continuò a cedere in quella serata autunnale, forse meno intensa che nel pomeriggio, ma comunque insopportabile. Decisamente di umore euforico, non badai al mio capo bagnato frugando nelle tasche della giacca alla ricerca di una sigaretta. Non vi era nessun pacchetto : consumai le ultime rimaste durante il viaggio a raggiungere il teatro. 

Desideroso di nicotina, entrai in un bar che fungeva anche da tabaccheria chiamato "Il Giglio". Le luci soffuse al suo interno rimandarono alla mia mente la  tipica atmosfera della "Milano da bere". Data l'ora tarda, le sedie del bar erano poste a gambe per aria sui tavoli.  

Puntando lo sguardo verso il bancone, notai una minuta figura di spalle abbigliata con una lussuosa pelliccia e una lunga gonna nera discutere scherzosamente con il barista. In testa portava un nero cappello femminile con la funzione di non farsi rovinare i capelli dalla pioggia.  Ben presto, avvicinandomi sempre di più al bancone, notai che si trattava di Giulietta. Aspirando delicatamente una sigaretta, continuava a ridere e scherzare  con il panciuto barista. 

Rimasi paralizzato. 

"Stiamo chiudendo!". La voce roca del barista mi fece sobbalzare. 

Giulietta si voltò verso di me con ancora il suo stupendo sorriso stampato sul volto. 

"G-g-giulietta!". Fu tutto quello che cercai di balbettare.

"I giornalisti sanno che sei qui??". Domandò il barista a Giulietta inarcando il sopracciglio sinistro. 

"No... deve essere un ammiratore!". Disse regalandomi il suo sguardo penetrante accompagnato dall'onnipresente sorriso. 

Non so come, riuscii ad avvicinarmi a lei accennando passi goffi come se stessi camminando in una palude. Le strinsi la mano in preda ad una crisi di panico; lei a sua volta strinse la mia con una presa decisa e accogliente. 

"Giulietta, lei è l'attrice più grande di tutti i tempi! Grazie di averci regalato capolavori stupendi...". Incredibile! Fui in grado di parlare! 

La mia eroina mi guardò stupita, con occhi grati e pieni di dolcezza. Il barista osservò divertito la scena, ansioso di sentire la risposta di Giulietta.

"Grazie infinite... come ti chiami?". 

Restai stupito : "C-come?". 

"Ti ho chiesto come ti chiami". Ripeté  la domanda cortesemente.

"Io mi chiamo... Luca". Risposi imbarazzato, ancora tremante. 

"Sei giovane Luca, quanti anni hai?". Ancora una volta non credevo alle mie orecchie.

"Ne ho venticinque..." Risposi estraendo dalle tasche della giacca la foto busta di Cabiria e facendo il più in fretta possibile per non seccare Giulietta e rubarle tempo prezioso. 

"Un' età stupenda... Oh bella!". Giulietta scorse la foto busta che posai sul bancone insieme alla penna.  "Potrebbe firmarmela per favore?".

"Certo! Queste foto buste hanno un gran valore oggi... ti deve piacere proprio Cabiria... ecco : a Luca con tanto affetto, Giulietta". Non ne potei più di trattenere le lacrime che appena Giulietta mi restituì la foto busta, piansi di gioia. 

"Grazie tante... grazie...". Le dissi stringendole nuovamente la mano.

Giulietta mi apparve lusingata e serena;  togliendosi il suo elegante cappello mi disse : "Grazie a te... posso offrirti un caffè?". 

Le mie mani stavano andando a pizzicare le mia braccia, per verificare se mi trovavo all'interno di uno dei miei sogni più belli. 

"Sì! Grazie mille!". In quel momento avrei bevuto anche benzina, purché offerta da Giulietta Masina. 

"Tulio, portaci due caffè... vieni, sediamoci al tavolo". 

Feci accomodare Giulietta togliendo due sedie dal tavolo più vicino al bancone, accomodandomi accanto a lei. Mentre posò accuratamente i suoi abiti allo schienale della sedia, emanò un sublime profumo di pulito; un aroma candido ed innocente che non avrei scordato facilmente.    

Le parole vennero a mancarmi all'istante : continuai ad osservarla in ogni dettaglio, studiando i suoi modi di fare tipicamente aristocratici.  

Tulio, questo il nome appunto del barista, arrivò subito dopo servendoci due caffè fumanti. 

"Come stai Luca? Ti è piaciuta l'inaugurazione?". Disse Giulietta, rompendo l'imbarazzante silenzio accendendosi un'altra sigaretta. 

"Beh io... s-si...". Il tremore non mi aveva ancora abbandonato. 

"Non essere così inquieto, a me piace parlare con i giovani e ai giovani piace parlare con me". Giulietta sorseggiò delicatamente quel caffè bollente.

"Sai, anch'io ero emozionata come te quando ad Hollywood ho chiesto l'autografo a Clark Gable. Lui mi rispose che forse era il caso che lui lo chiedesse a me visto che quella sera avevo vinto l'Oscar." Ricambiai il suo sorriso, osservando il suo sguardo sognante a narrare quella storia. 

"Quando l'ho raccontato a Federico". Proseguì con un tono più serio. "Lui mi disse : "Ma chi Gable? Con quelle orecchie a sventola?". 

Risi un po’ imbarazzato però sciogliendomi lentamente : "Per me è un onore poter parlare con lei... non sa quanto ho adorato "La Strada" e "Le Notti Di Cabiria"... e "Giulietta Degli Spiriti".

"Fa davvero piacere vedere un giovane interessarsi al nostro cinema, adoro recitare nella mia lingua... ultimamente mi sono state fatte offerte da tutti i paesi del mondo tranne che dall' Italia; le ho avute dalla Francia, dalla Cecoslovacchia, dalla Germania, dalla Jugoslavia...".

Colsi l'occasione per dirle che, nonostante non avesse recitato appunto nella sua lingua, amavo molto anche "La Gran Vita". Lei mi ascoltò osservandomi attentamente mentre la tensione abbandonava definitivamente il mio corpo.

Le narrai che avevo bramato per settimane la copia in VHS de "La Gran Vita" in una videoteca nell'attesa di ricevere l'ultimo stipendio per acquistarla. Giulietta restò stupita dall'adorazione che avevo per lei e per il suo ruolo di attrice, mentre elencai le scene che mi avevano divertito di più del film in questione. Tra queste vi era quella in cui lei stessa, durante un approccio, si pungeva con le spille da balia applicate al reggiseno (atto per tenere lontani gli uomini troppo focosi). 

Rise divertita a ricordare quella scena e prese il via a raccontare gli episodi che le stavano più a cuore della sua carriera. 

Mi resi conto che durante quel suo delizioso rimembrare era impossibile interromperla; risultava totalmente immersa nelle sue storie e nei suoi sogni. Mai  prima d'ora apprezzai così tanto sentire parlare una persona. 

Giulietta espresse il suo rammarico per un film mai fatto : un lungometraggio che aveva chiesto più volte a Federico Fellini sulla storia di Madre Cabrini. 

Affascinata dalla sua biografia, disse che sarebbe stato il sogno della sua vita impersonare la missionaria, ma dopo varie diatribe con il marito il progetto andò a monte per il dispiacere di Giulietta. Ricordando di aver letto la storia di Madre Cabrini, le dissi che abitavo vicino al paese dove la religiosa aveva maturato la vocazione al Colleggio Del Sacro Cuore (ora trasformatosi in oratorio Del Sacro Cuore) di Arluno (paese a sud ovest di Milano).

"Davvero? Mi piacerebbe andarci un giorno". 

"A me piacerebbe visitare il suo paese natale, San Giorgio Di Piano...". 

La sua risposta risuonò commovente : "Ogni volta che ritornavo in estate cercavo sempre qualche ricordo della mia infanzia... la stazioncina con il campanellino che segnalava l'arrivo del treno; mi ricordo il paese perfetto con il campanile e i quattro orologi."

Quando venne il turno di parlare del film "Giulietta Degli Spiriti", il suo sguardo divenne ancora serio. Inizialmente apprezzò i miei complimenti riguardo la sua fantastica voce : le dissi appunto che, oltre l'ottima recitazione, fu il particolare che apprezzai maggiormente. "Giulietta Degli Spiriti" fu il primo film che mi diede il privilegio di conoscerla come attrice; questo grazie a Sylva Koscina. Dopo aver visto "Sette Scialli Di Seta Gialla" e "Nel Buio Del  Terrore" (titolo alternativo : "Diabolicamente Sole Con Il Delitto"), fui desideroso di vedere un altro film con Sylvia. Leggendo il suo nome sul retro della VHS decisi di acquistarlo. Ricordo che passai un intero inverno a guardarlo ogni sera tra le proteste di Iris e infinite sigarette. Ogni volta dopo innumerevoli visioni, quando giungeva il tempo di coricarsi, nella mia mente bisticciavano quegli scenari bizzarri e quei colori vivi di "Giulietta Degli Spiriti". 

Mi innamorai anche della regia di Fellini ricercando tutte le sue produzioni. 

Raccontai tutto questo a Giulietta, la quale udendo i titoli dei due film che citai di Sylvia Koscina storse un po’ il naso : "Non mi piacciono i film di violenza, amo i film che riescono a trasmettermi qualcosa...". Nonostante questo, nutriva una stima spropositata per Sylva Koscina e per molte attrici del cinema italiano e mondiale.

Fu imprudente farle il nome di Anna Magnani tra quelli di Sofia Loren, Monica Vitti, Claudia Cardinale e Audrey Hepburn. 

Pur essendo passati molti anni Giulietta non dimenticò i diverbi con Nannarella, nonostante le dissi che consumai "Nella Città L'Inferno".  

"Anna era una donna notturna". Così la definì Giulietta, cercando di trattenersi forse per non farmi cadere un mito. "Non si alzava fino a tardo pomeriggio e tutti i gatti di Roma hanno pianto quando lei se ne è andata, perché gli dava da mangiare a tutti quanti". 

Ritornando al discorso di "Giulietta Degli Spiriti", mi disse che si trovò in disaccordo sul finale con Federico e che quel film non la rappresentava.

"Per le donne è diverso : io non volevo che a Giulietta il mondo le si spalancasse davanti, ma che si perdesse". Apprezzai la sua sincerità. 

"Dissi a Federico che i miei abiti nel film erano inadatti, che non avrebbero aiutato la mia interpretazione".

Qui mi trovai in disaccordo ma non le dissi nulla. Lasciai che si togliesse quel "sassolino dalla scarpa" nel migliore dei modi. Le dissi soltanto : "Lei è stupenda in ogni film", guadagnandomi ancora una volta il suo indimenticabile sorriso. 

Poco dopo mi deliziò con il suo amore per i vestiti. I suoi capi erano diventati ormai incontabili, conservati con tanto amore e cura. 

"A casa ho una stanza di soli vestiti... sono in tutti gli angoli; persino sul soffitto... passo le ore a guardarli, mi fa stare bene". Avrei versato assegni dalle cifre impronunciabili per vedere quella stanza e osservarla adorare i suoi preziosi vestiti. 

Mi venne naturale chiederle anche dove si trovasse suo marito, Federico Fellini. 

"Lui non ama molto le cerimonie, è andato a riposarsi in albergo. Ripartiremo domattina per Roma, io ne ho approfittato per salutare Tulio, visto che il teatro è vicino al suo bar. Passavo sempre di qui per un caffè durante i miei soggiorni a Milano... Tu sei sposato?". 

"Si da due anni...". Risposi fissando la tazzina ormai vuota.

"E' bello amare una persona... l'amore è vita". Le sue parole mi provocarono brividi leggeri.

"L'amore deve essere ricambiato". Ribattei io.

"Hai paura che non ti ama?". Chiese Giulietta con la sua voce materna.

"Tutto sembra cambiato da quando eravamo fidanzati". 

"E' normale cambiare... prima o poi tutti cambiamo. Cambiare è un atto d'amore verso la persona che si ama.".

Le lacrime cominciarono a riempire i miei occhi. Avvertii la stessa commozione che provai vedendo Cabiria genuflettersi all'altare mentre prega la madonna di farle cambiar vita. 

"Grazie Giulietta". Le dissi sperando che gli infiniti "grazie" che pronunciai quella sera non le fossero andati a noia. 

"Di niente Luca, è stato un piacere parlare con te. Ora scusami devo andare; domani sarà un' altra giornata movimentata". Giulietta si alzò dalla sedia, si diresse verso il bancone pagando i due caffè a Tulio. Mi alzai anch'io; il tremore alle gambe scompari' del tutto. 

Una volta usciti dal bar dissi a Giulietta : "Questa sera ho realizzato un sogno; parlare con lei è stato come parlare con un' amica che mi sembra di conoscere da tanto tempo.... mi scuso per l'imbarazzo iniziale ma la ringrazio per non avermi messo troppo in imbarazzo e avermi fatto aprire". 

Giulietta si mise il cappello in testa accennando una deliziosa risata : "Sono contenta di aver realizzato un tuo sogno. La vita non avrebbe significato se non avessimo modo di sognare. Ti auguro tanta felicità e di non smettere mai di sognare". Riattaccai con i soliti lagnosi "grazie", restando senza parole per le stupende frasi pronunciate dalla mia attrice preferita a pochi centimetri da me. Le feci per stringere la mano, ma lei mi disse : "Salutiamoci bene!". Le diedi tre baci sulla guancia, che lei ricambiò nel più affettuoso dei modi. 

Dopo averla salutata mi incamminai verso la macchina, continuando a voltarmi ad osservare la sua camminata leggera ed elegante. Giulietta diventava sempre più piccola, fino a quando svoltò in un vicolo che costeggiava via Marghera scomparendo dalla mia vista. La convinzione di aver sognato quella magnifica serata, restò leggermente viva dentro di me.

Il giorno dopo, osservando la foto busta autografata da Giulietta, mi resi conto che, per mia gioia, tutto ciò era accaduto veramente. La incorniciai appendendola al muro della camera da letto; svegliandomi ogni mattina assaporo il ricordo di quella sera. 

Da quel giorno vidi Iris sotto un'altra luce, imparando ad amarla per quello che era. Chiarimmo fatti a cui prima d'ora non avevamo mai accennato, forse per la paura di soffrire o di ferire entrambi.

Il nostro matrimonio riacquistò vitalità; quella vitalità che gli mancava per funzionare al meglio. 

Quando appresi della morte di Giulietta, avvenuta poco dopo quella di Federico Fellini, diverse lacrime bagnarono il giornale appena comperato all'edicola vicino casa. 

Venne sepolta con la lunga gonna nera scelta per la cerimonia dell'inaugurazione del "Teatro Giulietta", perché la faceva apparire più alta e snella. In una mano aveva il rosario color perla, quello con cui aveva da poco detto addio a Federico, e una rosa rossa. Nell'altra, posata sul cuore, teneva una piccola fotografia di Federico.

Il giornale era ormai zuppo... Ciao Giulietta, ovunque tu sia. 




A Giulia Anna "Giulietta" Masina (22/02/1921-23/03/1994), moglie di Federico Fellini e grande attrice.  

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Profilo Autore: luke676  

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Sai che sei un bel tipo ? Vuoi apparire sempre emancipata, evoluta, ribelle fino a sfiorare la rissa (verbale, per carità) e, invece, sei una donna come tutte le altre. Più di tutte le altre o forse meno di tutte le altre. Lo sapevo ! Hai mandato in confusione anche me che, di solito, sono un attento e distaccato osservatore dell’altrui valore. Mi chiedo come sia potuto succedere. Il fatto è che ti presenti in differenti modi e io stento a starti dietro. Pensa che sei riuscita a trasformare un vecchio marpione, come me, in un timido scolaretto. Sono timido, impacciato di fronte a te. A volte penso che tu mi metta paura...ma paura di cosa ? I miei rapporti con le donne sono sempre stati improntati sull’assoluta dominanza, invece con te mi sento suddito. Leviamo ombre alle parole che, come noti, non mi difettano. Quando dico dominanza intendo dire della proprietà dell’uomo a condurre i giochi con la donna sapendo, però, di riuscirne sempre sconfitto, ma così va la vita da che mondo è mondo. Inoltre, mi sento suddito con te perché amo risultare sconfitto da te. Si, riconosco di aver costruito un ordito abbastanza aggrovigliato, cercherò di dipanarlo con calma, cosa difficile quando sei tu l’oggetto della...disgressione. Andiamo con ordine. Ti ho conosciuta come una persona normale, come tante altre. Una che ostentava dolore, malcontento per quello che aveva subito nella vita, che gridava questo dolore al mondo intero e verso cui, di converso, non c’erano, non ci sono parole d’odio. Sembrava un modo di attirare l’attenzione verso di se. Non mi spiegavo, però, la dolcezza che usciva, che esce nella tua espressione più alta che è la poesia. I versi più alti e rabbiosi del tuo modo di poetare sono intrisi fino a marcire di dolcezza, di voglia di vivere, felice, serena sorridendo, e perché no, ridendo a bocca aperta come io immagino che tu faccia, quando lo fai. Senza contare i concetti che esprimi, aspri e pieni di significato, colmi di saggezza. Rimasi conquistato da questo incontro. Da una personalità così prorompente. Strano è che, anche tu, mi accettasti volentieri nella tua cerchia di amici. Uno come me si dovrebbe prima metabolizzare e quindi scegliere se darlo in pasto al sistema simpatico o eliminarlo con un buon purgante ! Io consiglio sempre la seconda opzione. Ora dovrai sopportarmi, però, perché se mi fanno incuriosire poi io vado a fondo e, per apnee, non sono secondo a nessuno !

Tuttavia, c’è anche una pecca in questo nostro trovarsi. Come potrebbe non esserci visto lo scontrarsi di due caratteri non semplici. Vedi, tu mi tratti come tratteresti tutti gli amici o forse tutte le persone del mondo e cioè, concludendo o, anche, iniziando ogni conversazione col solito aggettivo che sta cominciando a venirmi ad uggia : Amico ! Capisco e lo tollero (per ora !) per la brevità della nostra conoscenza, ma...sembra un paletto, il tronco di un albero secolare frapposto alle nostre anime, perché i corpi non si sono mai avvicinati ne lo faranno mai, probabilmente. Un separare, un creare le distanze fra due anime che si intendono bene. Siamo entrambi sposati, come vuoi che possa esserci altro tra noi se non comunicazione intellettuale anche di sentimenti ? Ho in mente di convincerti a superare questo gap psicologico, se vorrai. Non credi che fra noi ci sia già un feeling ? Incrementiamolo allora. Facciamolo crescere. Vedi che sono riuscito a trovare le parole giuste che non riesco a pronunciare quando ci parliamo. E’ stato più facile di quanto immaginassi, è bastato spostare qualche obiettivo alle dichiarazioni d’amore che facevo da ragazzo! Tranquilla, ero costantemente rifiutato dalla parte “avversa”. Mi aspetto che tu capisca la profondità e la diversità degli intenti tra quello che vorrei da te e quello che avrei voluto (ahimè) dalle ragazzine dell’epoca. Un’amicizia più profonda e casta è cosa difficile ma tu sei la persona con cui vorrei instaurarla perché...già, perché ? Perché forse io posso farti ridere più di altri, potrei farti dimenticare momentaneamente le tue avversità senza, naturalmente pretendere che tu cambi in nulla. Fammi concludere parafrasandoti. Ciao Amica !
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Profilo Autore: Bronson  

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Proprio come di notte,
il passar sotto lampioni
m' è di luce nell' animo...
la musica m' illumina
il tuo consolar
sotto le stelle.
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Profilo Autore: Matteo Biagio Rizzo  

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                   Splendore nei miei occhi 
                   la mattina
                   quando guardo  la campagna
                    ..... mi lascio trasportare.


                   Potesse il cielo rendere
                   alla terra cio' che noi
                   con i nostri sospiri lasciamo volare a lui,
                   quando guardando la meraviglia di questo mondo
                   sentiamo la gioia chiudere la gola 
                   per paura che il nostro respiro dissolva questo amore.

 
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Profilo Autore: Eleonora  

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