E’ da gennaio che con il gruppo di amici si discute sulla meta del trekking estivo. C’è chi propende per la Sardegna, chi per la Calabria. Mette fine alla discussione sulla scelta da fare la proposta di Giovanni: “il cammino porta d’oriente” nelle Marche. Spiega che da Ancona suddividendo il percorso in due tappe visto lo sviluppo chilometrico importante per raggiungere il santuario della Madonna di Loreto. La durata del trekking è di cinque giorni. La notte del 3 Luglio 1976 ci troviamo come convenuto nei pressi della gelateria “Babada”; nostro abituale punto di ritrovo. Carichiamo gli zaini nel bagagliaio dell’auto di Massimo e ci mettiamo in viaggio. Siamo in quatto: lo scrivente, Francesco, Massimo, l’autista, Giovanni, il prudente e Marco, l’instancabile. Arriviamo a Parma strafatti, Massimo a tutti i costi ha voluto fare il percorso in auto su strada statale. Posteggia l’auto nei pressi dell'Università degli Studi. Zaini alle spalle e c’incamminiamo per la città alla ricerca di un posto dove passare la notte. Marco chiede a un passante dove possiamo alloggiare a buon prezzo. - Proseguite in direzione dell’ospedale, quando siete nei pressi chiedete della Colomba. È una signora che tutti conoscono. Affitta le camere agli studenti, di questa stagione certamente ne ha di libere. Camminiamo per una buona mezzora prima di arrivare nelle vicinanze dell’ospedale, ancora una volta Marco chiede della signora Colomba. - In quel palazzo alla vostra destra, dove c'è il cartellone arancione, suonate al tre. Arriviamo al portone, suono al citofono, non ricevo risposta, apre il portone una bella signora. “Sono Colomba, in cosa posso essere utile?" - Siamo in cerca di una camera, ne ha disponibili? E pure il prezzo, per cortesia. “Ragassi: per una da quattro colazione compresa, sono quindicimila lire anticipate.” Ci accordiamo. Ci fa strada lungo un corridoio ai cui lati ci sono le porte delle camere. Ne ho contate dodici. E in quella ci invita a entrare. Quattro letti da una piazza, un lavabo, l’armadio e due sedie. Quadretti esotici sparsi qua e la appesi alle pareti. I servizi sono in comune con tutti gli altri ospiti. A noi va bene così. Seduti ognuno nel proprio letto progettiamo la serata. Cena o discoteca sono le opzioni. Prevale la cena in una trattoria tipica. Io non sono dell'umore giusto per la serata che sicuramente si sarebbe prolungata sino a tarda notte. Colpa della stanchezza o chissà che altro. Invento una valida scusa. - Ragazzi, vado a riposare, ne approfitto per il tempo che restate fuori perché poi, come al solito devo sorbirmi le vostre scoregge e i vostri rutti. Una sonora risata. E’ andata. Nessuno si è offeso. Mi spoglio e mi do una sciacquata in quel lavabo di altri tempi. Indosso una maglietta e mi corico Mi addormento in quella atmosfera di tempi ormai passati. Mi sveglio di soprassalto sentendo bussare alla porta della camera. Guardo l'orologio, erano passate due ore da quando mi ero coricato. Possibile che fossero già rientrati? Non era nel loro DNA. Passare le notti a bighellonare in giro è una consuetudine. Indosso i calzoni e vado ad aprire E’ la signora Colomba, con la sua parlata tipica dell'Emilia mi dice: - “ragasso, vien che mi aiut a metter tuàia che cènà con mi; non sta li impàlà che ho sprescia!” La seguo in cucina e insieme apparecchiamo. Stappa una bottiglia di Lambrusco e versa il vino nei bicchieri. Conversiamo, tra un sorso e l'altro mi dice che ha cinquantuno anni. Penso: “hai la stessa età di mia madre però sei una gnocca pazzesca.” La conversazione continua, la cena può attendere, non ho neppure molta fame. Mi racconta della sua vita, così, come fanno le persone di una certa età. “Sono nata e vissuta in una frazione di Faenza. I miei genitori erano agricoltori. Non ce la passavamo male, ma a me quella vita mi stava stretta. Avevo sedici anni quando mi sono trasferita a Parma, dalla sorella di mia madre. Germana il suo nome. Gemma il nomignolo. A differenza della mia mamma, la zia gestiva un importante giro d'affari. Fu così che un bel giorno mia madre mi dice: vai! Forse in città le tue aspirazioni si possono concretizzare. Non avevamo ancora toccato cibo. Alla bottiglia di vino ci si vede il sedere. Ne stappa un'altra, versa il nettare e prosegue: mia zia era proprietaria di un Bordello! Un Casino! Tutto il palazzo era di sua proprietà! Ed è proprio questo! Sì! Alloggi nella “Casa del Piacere “SORA GEMMA.” Immagina quel che succedeva nel letto dove eri coricato sino a poco prima! Sono inebetito, per di più ho una erezione spontanea che non riesco a nascondere. Mi alzo per aiutarla a portare le pietanze in tavola ma non riesco a celare quella protuberanza che gonfia i pantaloni. Mi toglie dall'impaccio. Siedi! “Botà so e magna ragasso.” (Butta giù e mangia ragazzo.) Il dopocena non l’ho mai dimenticato. Rientro in camera che sono le tre, gli amici non sono ancora rientrati. Mi getto sul letto, mi sento leggero, appagato, davvero una bella sensazione. Non so a che ora mi addormento ma so perfettamente l’orario di quando sobbalzo per il rumore di passi pesanti e risate. Sono arrivati. Dopo poco un alternarsi di russate dai rumori diversi emessi da ognuno di loro che mi infastidiscono al punto di togliermi il sonno. Mi rigiro nel lenzuolo e penso a quello che con Colomba, poche ore prima abbiamo fatto. Brutta idea, una parte di lenzuolo sembra una vela. Rimango li a osservare i tre perdi notti fino a che la voce di Colomba si fa sentire. “Ragassi è pront la claston, tìn bòtta che si frèsh! (Ragazzi la colazione è pronta, fate presto che si raffredda). In un battibaleno siamo in cucina; caffè latte e torta di mele sul tavolo. “Che mi dite: vi siete divertiti ieri notte? - Ho sentito quando siete rientrati! - Ne avete incontrate di fate patace? (Ne avete incontrato di belle ragazze?)” Silenzio. Solo il movimento delle mascelle. “E tu dormitor che disi? (e tu dormiglione, che dici?). Mi limito ad assentire. Finito di fare colazione ed entriamo in camera. Riordinammo alla bella e meglio. Zaino in spalla, salutiamo Colomba e ci avviammo verso l'auto.Una tirata e colmiamo la distanza tra Parma e Ancona. Trecentoventi chilometri d’auto. Massimo si ferma a un autogrill a metà percorso, giusto il tempo per un caffè. Giunti nella città si parcheggia l’auto. Per strada noto il volto stravolto dei miei compagni, mi domando come deve essere il mio dopo la notte parmense. Accendo una sigaretta, la prima della giornata, gli invito a prendere un caffè. Marco e Giovanni: - No grazie! Vi aspettiamo! Andate pure! Per loro è questione di braccino corto. Con Massimo ci avviamo in direzione del bar, entriamo e ordino due caffè, nel frattempo che li sta preparando gli chiedo informazioni, mi risponde in modo incomprensibile, nel suo dialetto, la lingua Italiana era una chimera per quel signore dietro il banco. Massimo:- che sfiga, non si capisce un cazzo di quello che dice. Quando raggiungiamo gli altri due, notiamo che è cambiato qualcosa nel loro umore. “Abbiamo le informazioni che ci servono, parlano uno sopra un tono dell’altro. Nelle vie trasversali troviamo la pensioncina che hanno indicato a Marco e Giovanni. Prendiamo accordi sul prezzo, io gli chiedo se al mattino può lasciare la colazione sul tavolo. Abbiamo intenzione di raggiungere Loreto a piedi. “Siete dei pellegrini? - Da dove venite?” Arriviamo da Sestri Levante e non siamo pellegrini. Chiede di essere pagato anticipatamente. Poi, ognuno nella propria camera. Sveglia alle cinque, mezzora dopo siamo al tavolo, imbandito per la colazione. Poi, zaino in spalla in direzione del Duomo. 
Usciti dalla città imbocchiamo una sterrata. Una freccia di legno consumato con su una scritta sbiadita indica Varano. Siamo nella giusta direzione. Campagna e collina da dove si aprono qua e la scorci panoramici. Avanziamo con prudenza per non inciampare nei massi che l'erba copre. Ogni volta che si voleva godere del panorama, una sosta. 
E’ un’opportunità per prendere fiato, visto che il percorso è tutto in forte salita. Con passo continuo arriviamo a Montacuto. Il sentiero termina e lascia spazio a una strada asfaltata che percorriamo sempre in accentuata salita. Un vero toccasana per i muscoli delle gambe. Arrivati a Varano, su un cartello campeggia una scritta: Parco del Conero. Una sosta di una decina di minuti e poi sempre in accentuata salita saliamo a Poggio. Un bel borgo, antico, caratteristico con una splendida veduta sul mare Adriatico. Lungo la strada troviamo un locale che somiglia vagamente a una osteria. Entriamo, chiedo se si può riempire le borracce d'acqua. Una sonora risata da parte di chi sta dietro il bancone. “Siete saliti fin qui per l'acqua? Fate pure! Ragazzi, aspettate, bevetevi questi bicchierini di vino! Offre la casa! Qui il vino è sacro.”
Ci sediamo a sorseggiare con piacere il vino che ci è stato offerto. Mi rendo conto solo in quel momento di quante ore avevamo camminato. Nove ore. Al giorno d’oggi i più, con l’ausilio della tecnologia, sono a calcolare i chilometri percorsi. In quegli anni contavano i tempi: siamo partiti alle, siamo arrivati alle. Un uomo nerboruto si avvicina a Massimo e gli chiede se passiamo lì la notte. Centelliniamo il vino e si decide di passare la notte in quel locale che funge da posto tappa per i pellegrini diretti a Loreto. Ottima scelta, cibo locale e vino a volontà.
Il giorno dopo consumiamo una abbondante colazione, saldiamo il conto e riprendiamo il nostro cammino che fortunatamente si snoda a valle. Non più salite. Siamo nella campagna pianeggiante del Conero, nel bel mezzo del più antico bosco marchigiano. Dobbiamo attraversare un guado del fiume Musone, non mi posso dimenticare il nome perché da lì in avanti, musoni ne abbiamo incontrato molti.

Il sentiero termina vicino alla stazione ferroviaria di Loreto. Siamo arrivati. Non posso crederci, guardo i miei amici, pure loro increduli nel vedere nel vedere quella moltitudine di pellegrini salire i trecento trentatré scalini sulle ginocchia. La chiamano la scala santa. Io la chiamerei la scala dei record. Non avevo mai assistito a una scena simile, canti a squarciagola, inni sacri sciorinati nel loro dialetto. Molti di questi finita la scalinata, messi a pecora baciano il terreno. A noi non rimane che accodarci a debita distanza. In scioltezza affrontiamo la scalinata e giunti in cima uno spettacolo inusuale una veduta ad ampio raggio su tutta la riviera. Aspettiamo in quella bella cornice paesaggistica che il Santuario si svuoti, niente, sembra che chi è entrato non voglia più uscire. Entriamo, proprio in quel momento la frenesia dei pellegrini raggiunge l'eccesso. Usciamo precipitosamente, spintonando chi era sui nostri passi domandandoci dove eravamo finiti. Una fede, che interpretata in quel modo è un insulto ai credenti e a Dio. Tutti e quattro siamo sbigottiti. Non abbiamo parole per descrivere le scene di fanatismo che abbiamo visto. Dal piazzale osserviamo un gruppo di pellegrini guidati da una donna, come mette piede sull’ultimo gradino della scalinata incomincia a gridare a squarciagola: “miracolo! Miracolo! Giorgio sente di nuovo! Miracolo! Quelli al seguito indicano il miracolato, a me sembra che senta molto bene, vedo la sua faccia sorpresa e le gomitate che riceveva dalla donna che continuava a sbraitare. I miracoli li fanno quelli che fanno credere che in quel posto il prodigio può avvenire. Ci è passata pure la fame, entriamo in un baretto, pure lì ci sono una miriade di immagini sacre. Volevo uscire, anche se il sole in candela rendeva torrida la temperatura, desisto e insieme agli altri ordiniamo da bere. Trangugio velocemente la mia birra ed esco, ho voglia di libertà e pure del caldo. Non passa tanto che mi raggiungono pure gli altri. Mi dispiace immensamente non aver potuto visitare la Basilica perché è raro vedere strutture architettoniche di quel tipo, più che a un luogo sacro somiglia a una fortezza. Peccato. Me ne faccio una ragione. Imbocchiamo una stradina, una indicazione: “Piazza della Madonna” centro artistico monumentale della città. Lo raggiungiamo, l’aspetto monumentale è di gran pregio, ci perdiamo tra quei monumenti che evocano la storia di altri tempi. Stona con quella ricchezza artistica il contorno. Banchetti con esposte immagini sacre, santini, crocefissi e quant'altro di quel genere. Acquistiamo solo i biglietti del pullman che alle diciotto parte diretto ad Ancona. Lì passiamo la notte e il mattino seguente direzione Parma. Ci fermiamo e passiamo la notte da Colomba. Ognuno di noi questa volta aveva una camera singola a propria disposizione. Nella mia, un letto a una piazza e mezza che nel corso della notte diventa a una per la presenza ingombrante di Colomba che si infila senza chiedermene il permesso sotto le lenzuola. Prima che inizi la danza mando un saluto vocale a Loreto: A MAI PIU'. Colomba mi guarda perplessa. Il giorno successivo rientriamo. Cosa mi ha regalato questa vacanza? Me lo domando sempre quando rientro e annoto. Questa mi ha regalato le immagini espresse dalla natura, le opere architettoniche, quelle monumentali, la compagnia dei miei compagni di viaggio e quel benedetto diavolo di donna, Colomba.
Quello che mi ha colpito in negativo, almeno per me che sono credente ma non osservante di nessuna confessione religione è che a Loreto tutto si muove sull’aspetto emotivo portato all’esasperazione. Questo non mi tocca nel profondo perché con Dio ho il privilegio di parlare senza intermediari, per la Chiesa cattolica è un problema ben più serio perché ha permesso che queste manifestazioni isteriche di fede abbiano attecchito al suo interno. Io continuo a viaggiare, a inerpicarmi per i monti e il mio pensiero mentre affronto la fatica per la meta da raggiungere è il mio dono al contesto meraviglioso della natura.

 

 

 


 

 

 

 

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Profilo Autore: Francesco*   Socio sostenitore del Club Poetico dal 04-10-2023

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Luoghi così caratteristici non ne ho mai visti. Le case a differenza delle nostre sul mare si mostrano tristi. Una ragione c’è, il forte vento. Le finestre sono così piccole che un soffio d'aria fatica a entrare. È la mia prima escursione in solitaria. Sono in Romagna, nella valle del Montone. Sul valico l'osteria "Primavera della vita" è adibita pure a rifugio. Punto tappa dove passo la notte. È sera quando arrivo, davanti all’osteria, ci sono molte persone affollate, l'occhio mi cade su una ragazza che ha all’incirca la mia età. Capelli rossi, occhi scuri. Quel contrasto mi piace, non riesco a togliergli gli occhi da dosso. Ha i lineamenti del viso spigolosi che rimarcano il carattere forte e coraggioso della ragazza. Scoppia improvviso una baruffa tra un gruppo di ragazzi e la rossa dagli occhi neri entra in modo veemente nella rissa che sta per scoppiare. Sto per intervenire ma sono bloccato da un braccio massiccio. Il volto è quello di un signore calvo con una lunga barba rossa. “Non ti impicciare sono beghe di paese.” È intervenuta per difendere il fratello, e nella concitazione del momento lo chiama per nome. ”Beppe, sono qui”. Lo toglie dalla mischia e la bagarre di poco prima cessa. Il calvo con la barba rossa è lì vicino a me con un'aria soddisfatta, gli domando il perché della zuffa. Non ottengo risposta. Soltanto: “hai visto ragazzo che forza mia figlia? Devono sbrigarsela da soli. Pure dopo una scazzottata, da queste parti si rimane amici.
Ho sulle gambe una ventina di chilometri caratterizzati da forti dislivelli e, il mattino successivo voglio raggiungere la vetta dell’Alpe di San Benedetto. È mattina. L’aria della notte si fa sentire. Dopo l'abbondante colazione mi metto in marcia. Mi inerpico aiutandomi con i bastoncini per la cresta sassosa del monte Tramiti. Un gran dislivello. Salita faticosa. La tentazione di tornare indietro è forte, ma non è altro, che la ribellione della pigrizia contro la volontà. Riprendo il cammino passo lento senza fermarmi se non per una sosta a bere una sorsata d'acqua. Il piacere della scoperta non mi abbandona, anzi stimola l’attenzione e affina i sensi.
 Mi avvicino a una capanna, una donna energica mi fa segno di avvicinarmi e con un fischio chiama  le capre che stanno pascolando. Arrivano in gruppo, mentre le pecore e le mucche continuano come se niente fosse a brucare l'erba e a scacciare le mosche. Si lasciano carezzare dalla pastora che le chiama per nome, poi ne munge alcune e mi offre una ciotola di latte caldo e spumante. Chiacchieriamo amabilmente seduti su di un masso, un incontro inatteso che mi permette di capire quale è il valore del lavoro in quelle zone montane. Ho la cima del monte davanti a me, guadagnarla non è facile. Consulto la carta e trovo un percorso alternativo che è più lungo ma più agevole. Ho raggiunto la vetta e lo spettacolo che si presenta ai miei occhi mi appaga della fatica compiuta. Una vastità di monti. L'appennino centrale è lì davanti, in lontananza fanno capolino le vette più alte. Una veduta che non ho più dimenticato. Arriva il momento in cui mi devo distaccare da quell'incanto, mi attende la sorgente dell'Arno che raggiungo con gran soddisfazione. Bevo con le mani a coppa l'acqua limpida e gelata. Rigenerato e gratificato riprendo il cammino in forte pendenza su un sentiero inaridito dal sole. Quando arrivo nei pressi dell'osteria la gente mi guarda con curiosità.
Mi viene incontro un ragazzo e mi chiede se sono socio del Club Alpino? Rispondo, sì. - Pure lui lo è. Instauriamo un rapporto di fraterna amicizia, il collante è la passione per la montagna. Ceniamo assieme scambiandoci le nostre esperienze. Si chiama Arturo e il mattino seguente lo trovo ad aspettarmi. Facciamo una abbondante colazione assieme e poi mi accompagna per un buon tratto di salita per l'eremo che non raggiungo a causa delle scarse indicazioni nel corso del percorso. Ritorno su i miei passi contento e felice di aver fatto questa escursione in solitaria. Abitualmente il trekking sui monti lo pratico con un gruppo di amici e raggiungere le vette dei monti è sempre una grande emozione che condividiamo assieme. Quello di cui scrivo oggi è un modo diverso nell’affrontare il cammino sui monti, ho goduto appieno il silenzio del bosco e non ero mai solo, in compagnia dei miei pensieri e del mio fiato. Per me non è una sfida a quelli che sono i miei limiti sto molto più attento e ricettivo ai particolari che spesso cambiano con il mutare del tempo. Macino dei gran chilometri di cammino e dislivelli importanti evitando le traccie che tagliano il bosco, a ogni deviazione controllo la carta e verifico la mia posizione, ci vuole poco a sbagliare, riprendo la marcia solo quando sono sicuro di essere sul sentiero corretto. In gruppo sono meno cauto perché posso contare sull’orientamento di un compagno o sul suo aiuto per superare i passaggi più difficili. Le raccomandazioni che ricevo ogni volta che affronto un trekking in solitaria sono svariate e tutte hanno una loro ragione, solo che te le fanno persone che non hanno mai praticato la montagna, io rispondo sempre che essere in compagnia non annulla i rischi. Mi piace adeguarmi al territorio. Per chi è nato in montagna questa capacità è innata, così come per gli animali, per me ogni volta è una conquista.
Alla prossima cari lettori.

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Profilo Autore: Francesco*   Socio sostenitore del Club Poetico dal 04-10-2023

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COME IL MARE CHE BAGNA QUEST'ISOLA
Agrigento 1957
Sono ancora stordita, in preda ad una forte confusione mentale, le gambe mi tremano, mi fanno male , e un forte torpore invade ogni muscolo del del mio corpo giungendo fino alle palpebre.
Forse è meglio che non sottoponga il mio corpo a sforzi eccessivi, ma si ! Forse la miglior cosa è sedermi un po' qui , sulla panchina che si trova nello spazio esterno del befotrofio.
Le finestre sono ancora spalancate e si sentono pianti assordanti malamente attutiti dalle nenie delle inservienti:
" Amore mio ti voglio bene,
Gli occhietti di mia figlia sono sereni, cosa ha la figlia mia che piange sempre?
Vuol essere cullata tra gli aranci. Oh! "
La ragazza si accascia sulla panchina affranta , quasi fosse una marionetta in preda agli eventi, prende un sospiro per placare l'ansia che l'assale partendo dal basso ventre. Gli occhi le tremano per trattenere il pianto , ecco che un lacrimone sta per calarle sul viso. Di colpo le vengono in mente le parole della madre: " a piangere figlia mia , che risolvi? Pazienza ci vuole dinnanzi alle burrasche" " Pazienza ci vuole dinnanzi alle burrasche " mi ripeto, la saggezza popolare mi è sempre di grande conforto. Come sono arrivata a questo punto? Lasciare una cresturella piccola, indifesa, un ' appendice di me , che mese dopo mese si nutriva delle mie parole, delle mie paure, dei miei sentimenti, della mia voce di madre- bambina.
Una figlia da me non voluta, una figlia del terrore. Perché dall'unione forzata, dal dolore indicibile deve venir fuori un seme d'amore? Amore malato ! Ho pensato guardandomi il ventre con ribrezzo, sicché volevo soffocarlo , annientarlo , strapparlo da me. Che ci fai tu stupido esserino ? Nessuno ti ha mai chiesto! Nessuno ti ha mai voluto. Ora che è successo quel che è successo, ora che il mio corpo è una brocca in frantumi a nessuno interesserà e non lo voglio nemmeno io !
La ragazza dal bel corpo esile e dagli occhi verdi come acque di smeraldo scoppia in un pianto ininterrotto. Il labbro superiore le trema, le guance si gonfiano e colorano di un rossore ustionante , la fronte sembra perlata dal sudore , anche se in realtà è una mattina qualsiasi dei primi di giugno e il caldo ancora non si fa sentire.
Mio padre , è stato lui che ha sistemato ogni cosa.
Sopraggiunte le prime doglie mi ha accompagnata qui.
" tutto si è risolto nel migliore dei modi! " Ha sussurrato in un sorriso la levatrice:
" è una bambina! Come vuole chiamarla ?"
" Che importanza ha!" stavo per obiettarle, poi ci ho ripensato.
Se questa bambina non potrà conoscermi ne carpire in me qualcosa di lei, se non potrà avere un ben che minimo contatto con la mia famiglia, che si chiami Anna , come la nonna materna o come la protagonista infelice di un romanzo di Tolstoj sperando che però lei sia la sua antitesi. Possa avere un ' esistenza fluida nonostante le increspature, come il mare che bagna quest'isola.
Quando mio padre ha chiamato la clinica per accertarsi sulle mie condizioni ho risposto in un sol fiato: " si chiama Anna come la mamma"
PS
So che allora in Sicilia era ancora in vigore la possibilità di contrarre il matrimonio riparatore, tuttavia nei racconti è sempre concesso desiderare un' alternativa meno brutale.
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Profilo Autore: Arianna Mosconi  

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Dalla piccola porticina di legno, un elfo è pronto a farci visita.
Ha lasciato il suo amato bosco, ma solo per le feste di Natale.
Tra le sue mani, una busta scritta con polvere magica di fata e una caramella rossa e frizzante che mastica più volte.
Lui è l' aiutante di Babbo Natale, osserva i comportamenti dei bambini, per vedere se meritano il regalo sotto l' albero.
È un po' birichino, può lasciare impronte piccole e bianche  simile a neve appena caduta e può spostare gli oggetti, fare disordine in casa.
Può nascondersi per scaldarsi vicino al camino, grattarsi la schiena con una molletta per il bucato e quando è stanco, russare come una minestra che sta per bollire.
Possiamo chiamarlo come preferiamo, lui è volenteroso e molto goloso.
Nel suo piccolo pancino, non mancano mai un pezzo di pane, una mela e il miele.
Babbo Natale lo ama per la sua bontà, anche se a volte prende sonno all' improvviso.
Basta solo un pò di zucchero sotto il naso e si sveglia, si stiracchia la schiena e spedisce un nuovo regalo, regalando ancora un dolce sorriso.
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Profilo Autore: Passione infinita  

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Era vissuto sempre solo.
Gli anni erano passati sereni, senza grandi drammi sino all’età di settant’anni. Poi, inaspettatamente, la sua vita cambiò. Un giorno d’estate, mentre andava a spasso per piazza S. Pietro in Roma, si trovò di fronte una persona che mai avrebbe immaginato di incontrare.
Quel giorno Francesco compiva proprio i settant’anni e sembrava una strana coincidenza incontrare quella persona, quasi che il destino avesse combinato quell’incontro.
- Ma tu sei Giovanna… ma non so… forse mi sbaglio - disse Francesco senza mai togliere lo sguardo da quegli occhi sorridenti e che forse avevano tanta voglia di raccontare.
- Sì sono io… Giovanna Alvisi e… tu se Francesco Rinaldi o… forse sbaglio? – rispose la donna con accento toscano e con modi fini ed educati. Giovanna non sbagliava.
Era proprio quel tale Francesco a cui aveva dato il primo bacio, le sue prime attenzioni… da innamorata. Poi, dopo l’Università si erano divisi. Ognuno aveva preso la propria strada; Giovanna un medico abbastanza noto nella capitale mentre Francesco lo era altrettanto nel campo legale.
Quel giorno il loro incontro fu veramente come un nuovo colpo di fulmine. Come due innamorati si presero per mano e quasi furtivamente si dettero un bacio. Giovanna e Francesco non erano sposati. Il lavoro aveva assorbito le loro giornate e non avevano mai pensato di crearsi una famiglia. Erano anni che non si vedevano. Forse erano passati quarant’anni. C’era stato sì un precedente incontro ma nessuno dei due aveva voluto dare una particolare attenzione all’altro. Quell’incontro in Piazza S. Pietro, diciamo, aveva favorito una decisione importante. Passarono così, nell’assoluta felicità tanti e tanti mesi. Il loro frequentarsi era continuo che ad un certo punto Francesco prese coraggio e le fece la proposta di matrimonio.
- Giovanna vuoi sposami? - disse Francesco tradendo un po' di emozione. La sua "fidanzata" non credeva a ciò che sentiva. Le sembrava impossibile che a quella età dovesse ricevere una proposta di matrimonio. Ma l’amore non ha età. Volevano mettere su famiglia. Crearsi un nido d’amore nonostante gli anni. In fin dei conti non c’era nessun impedimento. Anzi, l’amore avrebbe dato un aspetto decisamente diverso alla loro unione e alla loro vita da " pensionati". La cerimonia non fu sontuosa anzi tutto aveva il sapore della semplicità e della genuinità, quella vera che è assai difficile trovare. Amici da una parte e dall’altra e un pranzo intimo, quindi, con poche persone. Avevano poi scelto di vivere nel centro storico di Roma. Un decoroso appartamentino era il loro nido. Vissero ancora insieme per tantissimi anni sempre d’amore e d’accordo. Vissero molto intensamente che alla fine, per l’inevitabile disegno della vita, uno dopo l’altro si lasciarono. Avevano scritto un biglietto prima di "andarsene" forse per suggellare a loro stessi, per un senso di amorevolezza reciproca, quel loro volersi bene. Senz’altro si erano voluti veramente bene.
Gli amici trovarono i loro biglietti in un cassetto.
"Francesco, sei stato sempre un adorabile sposo.
La tua Giovanna".

"Giovanna, sei stata sempre la mia gioiosa compagna.
Il tuo Francesco".

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Profilo Autore: franco  

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A passo lento ripercorro il passato cercando di disimparare vecchie abitudini,

concentrandomi su ciò che sarò in grado di compiere da quest'attimo in poi.

Non penso d'avere dipendenze, le sigarette sono un lontano ricordo,

mio accertato difetto, scrivere, indispensabile come cibo per il corpo,

nutre la mia anima e non fa pesare la solitudine, mia compagna da anni.

Ho imparato ad entrare in sintonia con ciò che mi circonda cercando sempre

il lato positivo delle cose, allontanando le negatività del mondo sempre più ostile

verso le umane debolezze.

Le nuove percezioni mi inducono a dare ascolto alle intuizioni sbloccando l'ego

che le imbriglia, lasciano spazio al mio sentire che difficilmente sbaglia.

Non riuscirò mai a conoscere del tutto i segreti del mondo e a comprenderlo, essendo un pozzo di sorprese;

nel silenzio riesco a comunicare i miei, ne ho tantissimi da custodire e reinventare con la fantasia,

senza lasciar spaziare la noia che con me non riesce ad abitare.

Ogni giorno mi rinnovo per star bene con me stessa, il mio sguardo cattura,

la mente immagazzina per poi trascriverlo bloccando l'attimo, rendendolo immortale.

Come questo momento tutto mio, col canto dei grilli ininterrotto che funge da concerto

e qualche piccola o grande falena che corre incauta verso la luce, restandone intrappolata

come zanzara, lasciando quella scia di bruciato che rallegra e intristisce allo stesso modo.

Non esistono confini alla solitudine come non esiste dominio agli elementi della natura,

 sempre ci sorprendono tra dolori e rancori incrociando destini e talvolta scompaginando l'esistenza.

Gli abbagli son sempre nocivi, la cautela non è mai obsoleta in ogni frangente della vita.

Dopo tutte queste sciocchezze trascritte, vado a nanna con quest'afa insopportabile,

riuscirò comunque a riposare... con gli agi del progresso.

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Profilo Autore: genoveffa frau  

Questo autore ha pubblicato 351 articoli. Per maggiori informazioni cliccare sul nome.

- Non senti che la campana suona, Addolorata?
- Sì, mamma, ho sentito. E allora?
- Come? Non lo sai che dobbiamo andare alla messa delle sei? Che ti passa per la testa?
E poi perché ti sei vestita come se devi andare alla processione di Sant'Onorato?
- Uh, mamma, non l'ho dimenticato! Ma ora non ho voglia di ascoltare la messa, mi sono scocciata!
- E no, bella mia, tu mi devi spiegare questa improvvisa decisione! Come mai? E se ti vestisti così, dove devi andare allora? A passeggio per la via maestra, da sola, come una ragazza civettuola?
-E va bene! Mi vestii con l'abito azzurro perché mi aspetta in piazza Sofronia, la figlia di donna Prudenzia. Ci siamo messe d'accordo per passeggiare e andare a prendere un cono gelato. C'è qualcosa di male, mamma?
-Di male ce n'è assai! Tu in chiesa devi andare a pregare il Signore che ti faccia la grazia di sposare Onofrio Galantucci. Non ti piace più, ora? Sei una svergognata dopo che ti sei concessa a lui! Con lui ti devi sposare perché ti ama e farebbe follie per te! Ti ci porto io in chiesa, anche se dovessi trascinarti per la tua trecciolona.
-Mamma, finitela di scocciarmi! E poi per una messa! Che casino che state facendo!
Io ora esco e m'incontro con Sofronia. Passeggiamo per la piazza e ci pigliamo un bello gelato. Poi, se incontro Onofrio, lascio che mi faccia la corte, perché si deve decidere a chiedere a Voi la mia mano. Lo devo tenere a bada perché quello dice di amarmi, ma fa il cascamorto con tutte le ragazze.
- Addolorata, ma tu stai pazziando? Hai troppi grilli per la testa e so io come si chiamano sti grilli! A te ti piace u figlio di donna Rosetta e speri di incontrarlo per fare la svenevole con lui. Ma tu a bottana non la fai, mi hai capito?
- E che ci fa, se mi piace Cosimo Lupacola? Hai visto quanto è bello, che fisico che tiene? Lui è meglio di Onofrio che ha pure la gobba e i denti guasti. Perché mi devo sposare con lui?
-Il fatto è che tu ti metteresti con chiunque, con qualsiasi maschio che ti frughi in petto e tra le cosce! Sei svergognata e immorale! Che male ho fatto ad avere una figlia come a te? Tu devi pensare ad un matrimonio riparatore perché non sei più vergine, disgraziata! E siccome facisti l'amore con Onofrio, bello o brutto che sia, te lo devi sposare! Capisti, Addolorata?-
- Mamma, ora ti accompagno in chiesa e pregherò che il Signore mi faccia la grazia. Se mi sposerò con Onofrio, poi deciderò se frequentare ancora Cosimo... È così bello!

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Profilo Autore: Arcibaldo  

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- Ciao, come stai? Una volta, di maggio, venivi a trovarmi spesso… -
- Beh, altri tempi, ero un giovanotto, la casa non era lontana, il primo bagno era in aprile. -
- Sì, va bene, ma non mi hai detto come stai. -
- Così così… -
- Carenza di sogni? -
- No, per fortuna quelli non mancano! È che la vita mi prende, mi fa scordare chi sono. -
- E tu sai che devi fare? Alla vita, di’ che sei amico mio. -
- Lo sa, lo sa. Tu, invece, come procedi? Riesci sempre a spumare al meglio? -
- Mi do da fare. -
- Oggi sei di un azzurro antico. -
- Sentivo che saresti venuto e così ho chiesto al vento di assentarsi, di sfogarsi più a Nord. -
- Quale onore! -
- Senti un po’, so che scrivi poesie. -
- E chi te l’ha detto? -
- Si dice il peccato, non il peccatore. Ma tu, nei tuoi versi, mi nomini qualche volta? -
- Altro che! -
- E come mi descrivi? -
- Dipende da come ti vedo. -
- Vuoi dire da come mi vedevi, forse? -
- No, no! Da come ti vedo anche quando sono lontanissimo. -
- E dimmi ancora un’altra cosa… -
- Quale? -
- Hai mai svelato i nostri segreti? Hai mai parlato dei nostri incontri a sera? -
- Geloso? -
- Non si tratta di questo. Il fatto è che oggi sono altri tipi d’incontri. -
- Cioè? -
- La gente arriva, un tuffo e via, e poi si stende a pancia all’aria. -
- La gente non è tutta uguale. -
- In che senso? -
- Magari preferisce il lago, il fiume, i monti o le colline… -
- Fosse così, mi andrebbe bene. -
- Adesso però ti devo salutare. -
- Non andartene Auré! -
- La famiglia, la salute, il lavoro, il futuro… ma ti prometto che tornerò. -
- Io sono qui, io sono il mare. Appena sarai giù per il sentiero, ti riconoscerò. -

Mi avvio guardando, un po’, la sabbia avanti e, tanto, l’acqua indietro. Par che le onde si stirino proprio come me quando, al risveglio mattutino, distendo braccia e gambe. Forse è solo un’impressione, la tenera coda del sogno nella realtà. Sono già sulla stradina e i primi rumori mi rammentano dov’é che son diretto. Spedisco gli occhi al cielo e dopo, quando me li riprendo, si posano sul primo fianco della collina: c’è un salice che non piange.
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Profilo Autore: Aurelio Zucchi*   Sostenitore del Club Poetico dal 04-03-2020

Questo autore ha pubblicato 442 articoli. Per maggiori informazioni cliccare sul nome.
Rapito dall'amore per la bellissima Sut (Sacerdotessa del Tempio di Sefor) Akenafis s'abbandona nella perdizione per lei.
Irraggiungibile come una Dea per lui diviene ossessione d'amore.
Nessuno, nemmeno il gran sacerdote del tempio, può sfiorare la purezza di Sut.
La perdizione eterna nel mondo dei non morti attende chi oserà violare questa sacralità.
La vicinanza con questo tormento diviene sempre più insopportabile per Akenafis che affida allo scrittura la sua violenta passione.

L'occhio dal cielo.

Scruta l'occhio dal cielo i segreti degli amanti e d'essi accoglie i lamenti nelle notti gelide dei deserti.
Scruta in silenzio Akenafis che legge le parole sacre.
Pulsa il cuore.
Muore la mente nella pazzia.
Arde la pelle nel non toccare, si scioglie come miele,
colando lentamente dalle pareti dell'amore.
A nulla servono i poteri,
a nulla serve il nulla che distrugge il sacerdote.
Ti avrò Sut,
sarai mia nella casa delle intenzioni,
nella valle dei lussuriosi,
nei sotterranei delle acque nere.
Vento del deserto spira nella notte.
Granelli inondano ciò che non vede.
Il buio divora morso dopo morso
il tremore della genesi.
Gli organi vitali si scuotono sotto i colpi
del male oscuro.
Oscura è l'alito della morte che sputa il suo veleno
sulla vita di Akenafis.
Io sono ombra.
Io sono destino.
Io sono Akenafis sacerdote del sacro tempio di Sefor
ora e sempre nel corridoio dell'oblio infinito.

Il terzo alito della cenere

Terzo di cenere
nel soffio.
Sguardo di carbone.
Affusolate le gambe
scuotono le sensazioni,
vibrano le percezioni.
Ti volti,
pietra fredda in me,
caldo amante sarò.
Sciolgo il nodo
del sole morente.
Mani affusolate
lasciano segni
sul manoscritto di sabbia e conchiglie.
Amami nel tramonto delle dune,
amami come amante del tempo defunto.
Quarto di templi
del deserto dell'eden illusorio.
Losanghe disegnate
di monde paure.
Lesene del decoro,
falso inganno,
fatuo sostegno
sono i tuoi modi.
Idillio della città perduta,
oh sacerdotessa del principio delle ipocrite verità.
Sarò così per te
fra archi d'oscuro
e monumenti del torbido
sarò cosi.
amante
del tuo perso dormire.

Labirinti di perversione.

“Labirinti di perversione
tu che in me sei ossessione.
Trancio serpenti ingoiando occhi.
Scruta il falco nella notte,
il fiume dei morti ribolle d' anime.
Passi inconsistenti appaiono.
Labbra infuocate nel destino del suono.
Sfioro turgide emozioni,
sigillo in tombe mere passioni.
Re del trapassato pensiero,
manovro le membra dell'uomo.
Osservo le fattezze tue.
Nelle trasparenze m'immergo
per morire rinascendo.
Siano notti nella lussuria del dio Amos,
siano effluvi della disciplina di Sefor.
Siano corpi privi di sembianze,
nel contorcersi dell'essenza del peccato.
Io sono nel sibilo del vento
che attraversa le tue vesti,
io sono acqua che nelle tue forme si compiace,
freddo come il mondo che non esiste,
caldo come l'anfora del divino nettare.
Io sono privo d'inizio,
senza orizzonti finiti.
Io sono tramonto sul Nilo.
Io sono luce delle parole,
io sono freccia persa
nella valle del fremito,
nei sentieri della tua pelle di luna,
nell'arco delle infinite perdizioni.
Io sono Akenafis signore del silenzio,
padrone dei vasi sacri,
custode dei segreti dell'immortalità,
io sono tutto e nulla,
sono in ogni dove e in nessun luogo.
Sono quello che sono,
schiavo dei tuoi occhi di smeraldo,
oh mia regina Sut”

Io sono.

Io sono,
quello che sono.
Signore del mondo dell'oltre,
padrone delle tenebre di Assurbal.
Tra rive di reconditi perché mi ritrovai
e cascate di nubi
sorte dove non erano tentazioni.
Io che del corpo tralasciai discipline
per essere empio e poco.
Cercai il colmo
d'un bicchiere vuoto.
Come fiori d'un deserto
assaggiai il corso del sapere
avidamente affamato,
digiuno dell'universale moto.
Seppi di te,
oh dea,
amante di perdute reminiscenze.
Da te venni a imparare
turgide carezze nel bagno del peccato.
Bevvi da infuocati seni,
l'arte della incoscienza
perdendomi nel tempio dell'oblio.
Io che vissi morendo,
fui vita quando morte colse
il senso del nonsenso.
Quando l'abbandono nel tuo flessuoso velluto
mi rese avido di te.
D'avorio e mirra vestii le mie mani,
d'oro furono i gemiti,
di mosto e miele
fu il succo dell'amore.
Ventagli di spezie adornarono il pulsare,
onde del mare s'infransero nella calma d'obliate lagune,
scrosci di tempeste mi inebriarono del tuo amplesso.
Fui tutto in un momento.
Fui esistenza,
spegnendomi in quel momento.
Mai più vissi,
mai più compresi.
Lasciai la foresta delle gocce di lussuria,
lasciai il tramonto sui tuoi occhi d'argilla pura,
mi specchiai nel regno del mirto in fiore.
Divenni fiore
dell'oscurità
per esser preda
d'un convulso esistere.
Divenni lacrima per bagnare il tuo viso.
Divenni sole per prosciugare la tua sete.
Divenni effimera sospensione d' acque di rugiada
per acquietare i tuoi sensi.
Divenni emisfero di luce
per illuminare il tuo lato oscuro,
Infine divenni ombra per ghermire le tue sembianze
e custodirle nel mio paradiso dei sensi.

Trascorro il tempo.
Akenafis s'abbandona a se stesso nella dolcezza dell'amore impossibile.

“Trascorro il tempo
sospeso tra il crepuscolo che abbraccia il mare
e le tue labbra rosso fuoco.
Intreccio le onde
con i tuoi capelli scuri come profonde acque.
Freme l'aria,
scossa da fulmini e tuoni.
Freme la tempesta che sferza il cuore.
Solco le acque senza timore
per giungere da te,
mia regina.
Spargerò d'ambrosia il sentiero degli dei.
Trasformerò in oro i calici in cui berrai
il nettare dell'amore.
Riempirò le otri di novello succo.
Miele sarò per i tuoi sensi.
Sarà amore a far germogliare aridi deserti,
sarà amore,
per sempre scritto sulle pietre dei templi,
che al vento offrono passioni e desideri”.

Akenafis s'addormenta nel desiderio e la sua passione diviene amore puro.

Dolce miele,
delizia della mia lussuria,
di te mi nutro in ozio
saziando l'insaziabile,
estinguendo il pulsante tremare del desiderio.
Tu che sei rovente sabbia del mio crogiolo,
lascia che io ti assapori fino all'ultimo lembo,
lascia che io stenda le mie mani sul tuo inebriante
profumo.
Lascia che il notturno gemere svegli l'universo
dal suo oscuro torpore,
lascia che io sia quello che sono:
l'amante tuo.
Amore se mai accarezzerò
il colore della vita,
ascolta le frasi scolpite nella mia pazzia.
Ascolta il torrente di solitudine
che scorre nel mio cuore.
Ascolta il lamento del mare
che sussurra nenie dimenticate.
Oceani confusi
oltre l'orizzonte danzano nella libidine.
Laggiù l'eco s'inchina al tuo splendore.
Laggiù la profondità dei tuoi movimenti
innalza le onde delle nostre paure.

Ultimo atto la morte

Akenafis si sveglia dal sonno dell'oblio e nel tormento assoluto decide di suicidarsi con il veleno.

Ancora una volta
attraverserò le più remote regioni dell'impossibile,
per stringere a me l'origine del peccato.
Tu che fosti mio peccato
tu che silente ascoltasti il mio ultimo “ti amo”,
cantato per te.
Ascolta ora il mio ultimo respiro oh mia regina.

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Profilo Autore: Giancarlo Gravili  

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"Fammi nascere affinché io possa veder sorgere il sole ogni giorno", disse il seme alle fertili e rigogliose zolle. "Ti nutrirò come meglio potrò: estrarrò dai miei seni il nutrimento adatto per farti crescere forte e vigoroso," rispose la terra. Fu così che madre terra accolse nel suo ventre il seme e quando a primavera partorì il frutto, fornì ad esso tutto quanto gli serviva per farlo crescere sano e forte. Così il seme divenne dapprima un piccolo verde virgulto, poi una piantina e col passare del tempo un albero robusto e vigoroso. Quando fu pronto per cavarsela da solo, la terra fece la solita raccomandazione che ogni madre fa al proprio figlio: "ora sei pronto per affrontare la vita. Lascia che il sole ti baci, non temere la pioggia: dopo il temporale esce sempre il sereno. Quando il vento urla forte e ti spezza qualche ramoscello, tu non fermarti mai troppo a leccarti le ferite: chi combatte può vincere, può perdere, ma vale la pena provarci...sempre. Abbi pietà per chi non è consapevole di ciò che fa: non tutti hanno la capacità di discernere. Non fidarti di chi promette e non mantiene: perderai solo inutile tempo. Sappi che nulla si ottiene facilmente: se vuoi ottenere risultati migliori devi impegnarti al massimo. In caso di bisogno chiedi aiuto, ma non appoggiarti troppo agli altri, perché rischieresti di cadere: ricorda che ognuno ha le sue debolezze. Quando la tua buccia comincerà a raggrinzirsi, non andare contro natura cercando di riparare piccole ferite che vengono considerati inestetismi, con inutili, miracolose e costose "cure"; ma accetta che la natura faccia il suo corso e che il tempo lasci su di te il segno dei tuoi anni. Quando comincerai a sentirti stanco e i tuoi rami saranno secchi, lasciati andare; perché vivere è sempre un privilegio e tu hai avuto la fortuna di nascere." Se i tuoi frutti cadranno sul terreno e spargeranno tutt'attorno i loro semi, nasceranno piccoli germogli che diventeranno piantine e poi alberi...e poi: finché c'è un dopo, non si smette mai di vivere."
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Profilo Autore: Giovanna Balsamo  

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