Un lenzuolo di stelle scaldava il cielo infreddolito incantando gli occhioni scuri di Andrea.

Accovacciato stretto stretto nel suo maglioncino a righe blu, fissava la finestra sul cortile fantasticando sui suoi giovani sogni.

Giulio, il suo gattino vispo e coccolone, gli solleticava divertito il mento con la sua folta codina bianca.

Il pupazzo di neve che avevano costruito assieme questa mattina, con l’aiuto di nonno Riccardo, sembrava guardarli sorridendo come se li invitasse a giocare con loro.

D’ improvviso i passi di mamma Sofia giunsero frettolosi dalla cucina, rallegrando quella fredda sera d’inverno con un golosissimo ciambellone e una tazza di squisita cioccolata.

Giulio, monello e incuriosito, fiutato un buon profumino, ci tuffò subito i suoi lunghi baffetti e dopo un breve assaggino tirò fuori il suo faccino impiastricciato di bontà divertendo immediatamente tutti.

Era buffissimo ma anche un po’permaloso, così si raggomitolò sentitamente infastidito nella cesta con il suo orsacchiotto preferito e schiacciò un lungo pisolino.

Le note di un pianoforte accompagnarono il suo sonnellino mescolandosi allo spettacolo delle scintille e al crepitio della legna che bruciava lentamente nel camino.

Sulle note di una tenera canzoncina, un applauso di gioia risuonò per l’intera stanza appena Andrea spense con un gran soffio le sue 5 candeline tinte di rosso.

Dopo aver scattato una bellissima foto ricordo vicino all’abete addobbato a festa con tante scintillanti lucine colorate, nonno Riccardo esordì raccontando:

“ C’era una volta, tanto tempo fa, un piccolo bosco innevato popolato dai messaggeri dei desideri: gli elfi di babbo natale.

Un giorno bussò alla loro porta un angelo venuto da molto lontano che a tutti portava in regalo briciole di polvere di stelle in un prezioso sacchetto argentato.

D’improvviso, allo scoccare della mezzanotte, un lampo di luce illuminò il cielo incantato: era la cometa dell’amore che annunciava al pianeta la nascita del Salvatore.

Gli elfi e il grazioso angioletto si radunarono attorno al cero magico della speranza per poi stringersi commossi in un reciproco abbraccio di pace.

Il vento della felicità agitò i rami infiniti dell’abete dei sogni lasciando volteggiare nell’aria migliaia di letterine inviate a babbo natale dai bimbi più poveri e soli del mondo.

La polvere di stelle le trasformò in mille tenere carezze e baci colmi d’amore che in silenzio raggiunsero ogni bimbo triste e sul cuore di ognuno dolcemente si posarono”.

Profilo Autore: rosa dei venti  

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In una notte con il cielo stellato si avvicina la fine di un viaggio, si torna al caldo della città.
Raccolti a cerchio, al centro un falò che ci scalda, ci abbracciamo per ripararci dal freddo.
E' grande il dispiacere di lasciare questa montagna fuori dal mondo.
Ultima sera, ultima notte, ai confini del cielo, dove scorrono le stelle cadenti come satelliti spia.
La pace vive qua, fra queste vette, dove quasi tocchiamo il cielo e le nuvole.
Le notti fredde della montagna, le passeggiate fra i pini, versi di animali, nel buio si scorgono gli occhi luminosi.
La malga in cima alla montagna, il rifugio che ci ha ospitati, dove tramonti e albe meravigliose disegnano il cielo, gli spettacoli dei bambini che corrono, urlano, giocano.
La malga fuori dal mondo, siamo tornati alle origini, ritroviamo i valori che sembravano perdute, le cene a lume di candela, senza energia elettrica, senza acqua potabile, una cisterna sotterranea per i bisogni quotidiani, un generatore di corrente per le emergenze.
Un ritorno indietro nel tempo, per raccogliere i pensieri, per ritrovare la pace e la serenità, a contatto con la natura, una serata diversa, un falò, la musica, le stelle ci guardano molto da vicino.
Stradine sperdute fra i monti, pace e tranquillità, alberi enormi ci circondano, pini, abeti, tutti in fila come se avessero preso le misure per allinearsi.
il vento soffia forte, fa fischiare i rami degli alberi, a tratti sembra di sentire delle voci, una pioggerellina sottile inizia a scendere, la temperatura sempre piu rigida, si torna a casa con molto dispiacere.
Profilo Autore: Silvana Montarello  

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Quella sera il domatore aveva come uno strano presentimento. Eppure tutto era filato liscio come al solito: i leoni erano stati pasciuti abbondantemente ed avevano provato i loro esercizi con diligenza, come se fossero riconoscenti...
Lo spettacolo era già iniziato ed il pubblico osservava divertito le "prodezze" dei clowns, ma già un po' eccitato all'idea di ciò che sarebbe venuto dopo: il numero della "gabbia dei leoni".
Il leone è un animale "nobile". Il suo corpo è possente, vigoroso ed il suo aspetto ti colpisce immediatamente per la sua bellezza e maestà. La sua ferocia t'incute certamente timore ma anche una sorta di rispetto.
La gabbia era stata preparata ed ecco apparire in fila indiana i leoni accompagnati dai sonori schiocchi di frusta del domatore. Erano già tutti in cerchio pronti ad esibirsi obbedienti ai cenni di comando che stavano per ricevere, ma ecco che egli, il domatore, si accorge, sente che c'è qualcosa di nuovo, d'insolito, di non previsto e forse d'imprevedibile che aleggia, vibra intorno a lui: è lo sguardo di un leone non  tanto giovane, uno di quelli che avevano fatto sempre il loro onesto "lavoro" senza strafare ma anche in modo affidabile e corretto. Certo non era il preferito, quello a cui si poteva concedere qualche confidenza all'apparenza pericolosa ma che suscita nello spettatore una benefica reazione adrenalinica. Nulla in ogni modo poteva far presagire che quella sera quel leone avrebbe concesso al pubblico un "extra" così emozionante. Stava ritto sul suo sgabello in una strana attesa, come se volesse far intendere che quella sera le cose sarebbero andate diversamente, che proprio non ci stava a fare l'"idiota" ancora una volta per compiacere il suo "addestratore-benefattore" e fargli fare bella figura davanti al pubblico. Il domatore però non si dimostrò sorpreso della novità ed osservò anche lui strano, ma senza timore, come se volesse chiedergli qualcosa che però lui stesso non sapeva precisamente: stai male?, forse non hai digerito bene?, ti senti stanco?, qualcuno ti ha trattato male? e tuttavia sapendo che non era questo, che c'era qualcos'altro sotto.
Che si trattasse di un bisogno di maggiore giustizia e libertà, questo al domatore non sarebbe mai passato per la mente. Egli era così abituato a vedere i leoni obbedire ad ogni suo comando, e la coscienza della sua presunta superiorità su di loro metteva fuori discussione la bontà e l'onestà del suo comportamento. Quella sera però quel leone proprio non ci stava e con un improvviso balzo si gettò sul povero domatore scaraventandolo a terra tra le urla della folla. Un colpo di pistola sparato da un addetto alla sicurezza lo freddò ponendo fine ai suoi giorni, ma quello per lui fu un vero "giorno da leoni".

Profilo Autore: Emilio Rega  

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Sono seduta in questo maledetto ristorante, in un bellissimo quartiere parigino,mentre sorseggio del buon vino bianco.
Scrivo, mentre vago con gli occhi fuori dalla grande vetrata, sperando di incrociare i suoi.
Dalla vetrata si vede benissimo la Torre Eiffel, e mi vengono in mente vecchi ricordi; il nostro primo bacio, il giorno in cui gli dissi che aspettavamo un bambino e il giorno in cui gli dissi per la prima volta che lo amavo.
L'ho invitato a cena questa sera, sperando che lui perdoni il mio grande sbaglio.

Gli occhi scrutano tutti, ma i suoi non ci sono. Sono occhi bellissimi, ancora riesco a vedere nella mia testa ogni sua venatura marrone. Ma non è un semplice marrone, è un marrone diverso, speciale. Erano due pianeti e ogni volta che li guardavo viaggiavo.
Dei suoi occhi ancora nessuna traccia, vedo solo qualche luce natalizia qua e la. Fra poco sarà natale, e devo cominciare a fare una lista di regali per tutte le persone che mi sono care.
Proprio in fondo a questa strada c'è un negozio dove vendono cose molto carine, forse dovrei farci un salto.

Sono già passate due ore dall'appuntamento, e probabilmente ne passerò altrettante ad aspettarlo, ma di lui nessuna traccia.
Di colpo uno sparo, poi un altro. Da dove provengono? Sembrano così lontani eppure sono così vicini. Un uomo vestito di nero si è alzato e ha sparato un colpo in testa ad un signore proprio di fianco a me. Il corpo caduto a terra ha fatto un grosso tonfo, mentre i suoi occhi azzurri guardavano il soffitto. La donna di fronte a lui è paralizzata. E' la realtà o è solo frutto della mia immaginazione? Sento delle urla, ma nessuno è in piedi. Nessuno vuole essere la sua prossima vittima. Forse stando seduti e facendo i bravi lui ci risparmierà tutti.
Un altro colpo echeggia nella sala, poi un altro e un altro ancora.
Sul pavimento del ristorante ci sono una distesa di corpi esanimi. Tutti i loro occhi puntano al soffitto, come a chiedere perdono ai piedi dei loro assassini.
Ma dov'è lui? Devo dirgli tante cose. Devo dirgli che mi dispiace, che avrei fatto di tutto per riaverlo. Che tradirlo è stato uno sbaglio, che mi sento in colpa ma che ho capito di amarlo davvero. Devo dirgli tutte queste cose, ma ho paura. Ho paura di non poter vedere più i suoi occhi marroni, ho paura che non mi perdoni. Ho paura che sia troppo tardi.
Un altro colpo.




Profilo Autore: SabrinaVacca  

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 Le si era quasi appiccicato tra le dita, quando aveva infilato la mano, mentre riguardava quella biancheria che non usava più tanto spesso; ma lei lo aveva dimenticato.

Si, aveva dimenticato quel foglio conservato tanto tempo fa, piegato con cura e riposto in fondo a quel cassetto.

Nella vecchia cassettiera, ricordo della nonna, tra asciugamani di lino e lenzuola con merletti, così profumati di cedri e bergamotti, maturati al sole caldo del sud. Forse non a caso lo aveva

messo lì, custodito come un segreto d'altri tempi, tra ricordi antichi e cari, tra i profumi di casa che evocano emozioni; lì celato allo sguardo altrui, lontano dal tempo che passava.

... Era una sua vecchia poesia, beh, a dire il vero, lei non aveva mai pensato lo fosse, allora lei non aveva molta stima di sé. Aveva scritto di getto, la mano aveva fatto tutto da sola, scriveva

quello che il cuore dettava. Perchè è vero: ciò che la bocca tace, il cuore grida!...

L'aveva, poi, riletta e aveva buttato giù qualche lacrima, niente di che, emozioni del momento, scaturite da uno stato d'animo, da una certa debolezza emotiva. Ma poi aveva voluto

conservarla; forse, quel foglio, lo aveva "buttato" furtivamente in fondo a quel cassetto, come a nasconderlo. Ma cosa contava il "perchè", tutto apparteneva ad una vita fa...

Eccola: ora era di nuovo tra le sue mani.

Tornò in camera, sedette sul letto, aprì il foglio...

...Erano passati venti anni!

Guardando quel foglio, la mente cominciò a rovistare tra i ricordi di quegli anni e il viso le diventava a tratti dolce e in altri le si rattristava.

Prima che gli occhi scorressero su quei righi, li alzò e li volse verso l'immagine riflessa nello specchio di fronte. Più che guardare i contorni della figura, cercava di coglierne l'anima.

 Voleva far confronti. Ricordava cosa, o meglio, sapeva bene quali emozioni, contenessero quelle parole; quindi si scrutava dentro.

Erano tempi, quelli passati, in cui la sua vita non era proprio al massimo. C'era molta delusione,  nel cuore , rabbia, dolore, disapprovazione. Ma lei era una con un'aureola grossa così firmata

"pazienza", che la faceva sperare. Sì, sperava sempre ed ancora che le cose cambiassero. Era romantica, fiduciosa, ingenua! Amava, dava tempo agli altri di ravvedersi. Macchè!!...

A sentir lei, tutti ragione: era lei a sbagliare!

Brutto vizio, anzi, un viziaccio…

Si faceva del male da sola? Forse sì. Possibile che pensava, o fosse convinta, che nessuno vedesse le cose dal suo punto di vista? Non tutti, no, ma perlomeno chi amava;

chi diceva di amarla…

Così, lei inghiottiva e gli altri la mangiavano. Per non fare del male, replicando, opponendosi alle situazioni, ne faceva a se stessa!

Avrebbe voluto che gli altri capissero lei, come lei capiva gli altri. Utopia!...

Poi le cose cambiarono.

Ma vennero tempi ancora più tristi. Anni vuoti, durante i quali, trovò una forza che mai aveva immaginato avesse.

Nonostante i dolori della vita, gli eventi, le persone, avessero contribuito a quel malessere, lei si aggrappava a fili sottilissimi, fragili. Si arrampicava, dolorosamente, su da quel pozzo di dolore,

attorcigliandosi a quei fili che volevano dire: VITA.

Lo faceva come un'acrobata che risale la fune per arrivare in cima al trapezio e dare inizio allo spettacolo. E lei aveva tanta voglia di iniziare il suo!...

Aveva costanza, tenacia che le davano forza e la incitavano nei momenti di maggior stanchezza.

Così affilava le unghie, risaliva l'albero della sua vita e imparava ad essere felina…

"Ce l'ho, ce l'ho!... Non è morta, devo solo tirarla su da quel fosso, come tante e tante volte! Voglio essere felice. Devo esserlo! Devo usare tutta la mia intelligenza per non cadere in quel

buio. Non voglio, non devo essere soggiogata delle mie paure e  dominata dalle debolezze."...

Era questo il suo continuo ripetersi, riferendosi alla forza che cercava di scavare dal suo profondo; da quel senso di vuoto disperato che le faceva tanto male, che ogni giorno, aprendo gli

occhi, le faceva sobbalzare il cuore in gola come se prendesse, all’istante, un grosso spavento!

Scavava, scavava dentro e, intanto, cercava di rialzarsi da quella grossa macchia d'olio per tenere i piedi finalmente ben saldi a suolo.

Finalmente, la caparbietà e la voglia di tornare a gioire, l'amore per chi amava e quello di chi  l’amava, le passioni alle quali si era abbracciata e le facevano sentire la voglia di essere

protagonista della sua vita, fecero di lei una persona nuova: piena di vita... Lei!...

Gli altri non cambiavano, non lo avrebbero fatto mai, per stupidità, per egoismo, per ignoranza; ma ora, lei si difendeva bene, sapeva combattere, si era fatto il suo scudo: lo aveva trovato.

Aveva costatato che, come lei, altri avrebbero fatto lo stesso, ragionato altrettanto e non avrebbero sopportato altrettanto: cosa che lei non aveva, purtroppo, capito tanto presto.

Ma la vita dà sempre un'opportunità di rivincita. 

Così fece passi da leone… La forza era sopravvissuta!...

... Anni novanta, era datata la poesia… La rilesse.

Non era cambiata poi tanto, ritrovò lo spirito battagliero che allora celava dentro, la delusione, ma era una poesia che, a rileggerla, poteva indossare chiunque... Quindi!!?...

Riguardò lo specchio, le parve di cogliere un sorriso nascosto tra i riccioli, negli occhi.

Guardava se stessa, nel profondo, e si sentì compiaciuta: vedeva una donna forte, più forte e fu soddisfatta. Anche se, in molte cose, non ci si ritrovava più, beh, quei versi potevano anche

restare ancora scritti lì; la vita, infondo, è un pò... così per tutti, anche solo per un giorno.

Era proprio, quel che si dice...

 …. UN "IO" qualunque....

     Io, tanta voglia di ridere,
     tanta di gioire, amare
     eppur,
     tanta voglia di piangere,
     fuggire, gridare.


     Io triste, io allegra,
     io viva, io vuota!
     Io con tanta voglia di dare
     forte come roccia,
     delicata, fragile
     come bimbo,
     agitato mare in tempesta.

     Di nuovo frizzante mattino di
     primavera...
     E ancora io: delusa,
     derisa, ingannata,
     ignorata, calpestata.
     Con un cuore pazzo
     con un cuore a pezzi.

     ...Con le mani piene,
      con le mani vuote.
     Testarda…
     con le mie certezze,
     le mie contraddizioni:
     poi, arresa...

     Io piena di paure,
     stremata, stanca.
     Sola…
     tra tanta gente!
     Io con tanta voglia di vivere
     tanta di essere.
    ... IO?!...
    Sì, proprio io...

..... Ripiegò il foglio con cura, seguendo i segni che il tempo aveva lasciato sulle piegature. Ne senti un pò l'odore di chiuso e di vecchio, e quella  leggera fragranza. Era un gesto delicato, quel

portare il foglio al naso, quasi fosse una vecchia lettera d'amore; ripensandoci, evocava immagini di vecchi film, un po’ strappa lacrime, visti in tv….

 Stette un po’ così, come ancora a cogliere qualche altra lontana ombra del passato, dopodichè lo ripose tra i profumi di bergamotto: lì, cullato tra i ricordi, perchè parte di lei come le lenzuola

con i pizzi che, anche se non usava più così spesso, erano e restavano suoi per sempre.

… Poi, chiuse il cassetto, si girò e sorrise allo specchio.

Profilo Autore: Giò  

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Correva senza conoscere, il giovane stambecco, lungo il dirupo che lo vide nascere
pensandolo amico di gioco. Scivolò, tentando di frenare la sua fine, sbattendo contro un ramo.
Quel ramo, era la zampa della madre che non vide iniziando a giocare
e fermo a penzoloni, buttò gli occhi di gratitudine a chi gli aveva concesso di vivere una seconda volta.
Il suo poco pelo, sembrava una buccia.
Leccandosi le ferite, si avvicino' alla madre, per accompagnarla e colmarla, ancora di gratitudine.
La madre ancora una volta, lo spinse nel continuare a giocare, perchè così doveva essere.
Perchè così sentiva.
Il piccolo gioca, impara, cresce.
La madre, insegna, sorveglia, indirizza, aiuta.
Finchè dovrà oltrepassare la salita, abbandonare il tempo, per correre su bianchi prati, felice di aver lasciato a qualcuno
la vita e il sapere.
Il giovane stambecco ormai cresciuto, parsimonioso del suo tesoro, non scivola, non gioca, ma torna in quei luoghi
dove tutto gli è servito, per arrivare fin lì.
Guardando la neve e ritornando sui suoi passi, ripercorre la sua vita, dal volto di sua madre. 
Profilo Autore: Valerio Foglia*   Sostenitore del Club Poetico dal 28-02-2024

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Ciao ragazzi, mi presento. Sono Gheo, sono gatto e ‘sta storia ve la voglio raccontare.
Sono nato circa sei anni fa in una bella cucciolata, contando tutti, compresa la mamma, eravamo sette pelosi e colorati, raggomitolati in una grossa cesta di vimini piazzata ai piedi d’un cespuglio di rose gialle e profumate. Che sole, ragazzi! Che aria! Da subito capii che ero un tipo fortunato.
Una mamma premurosa, latte a volontà, aria buona di campagna e tempo mite di primavera. Chi sarebbe cresciuto meglio? L’unico piccolo neo consisteva nella presenza di Penelope la nera. Chi è Penelope? Ma mia sorella! L’unica femmina e l’unica rompiscatole dispettosa e prepotente.  Che Dio la benedica! Chissà che fine ha fatto!
Mi ricordo solo una coppia di giovanetti tutti sorridenti e soddisfatti che l’infilarono dentro un pile colorato e, oplà, il gioco è fatto. Da allora della piccola nera non s’è saputo più nulla.
Così fu per gli altri miei fratelli, in poco tempo uno dopo l’altro si sono dileguati, chi qua, chi là,  tutti adottati, spero tanto da bravi cristiani.
Solo io sono rimasto con la mamma, che a dir la verità, m’ha smammato assai presto. A sessanta giorni esatti, manco avesse avuto un calendario in testa, m’ha detto “Ormai sei un giovanotto, vai conquista il mondo” e pure lei se n’è andata per i fatti suoi.
Vi dico che si stava proprio bene e che ricordo i giorni miei da cucciolo,  come meravigliosi tempi, di giochi, scorribande, corse pazze tra l’erba alta del giardino, caccia a lucertole e grilli, pappate a più non posso e sonni quieti tra i rami degli alberi, a due passi da un mare di stelle.
Sarà perché ero proprio un bel gatto, a dir la verità lo sono ancora, che gli umani mi scelsero tra tutti i miei fratelli. Sono fulvo e bianco col pelo lungo e una coda che se ti da uno schiaffo ti rivolta la faccia. Altro che Romeo il più bel gatto der Colosseo!
M’ero pure innamorato di “fatina”,  la gattina bianca e nera dei vicini di casa. Gran signora, molto chic, occhi blu e lunghissime vibrisse! E tutto andava a meraviglia, fin quando (e ancora oggi non ho capito il motivo) i miei cari umani, piantarono baracca e burattini, insomma fecero le valigie, presero anche me di sorpresa, infilandomi in una specie di gabbia e addio Paradiso! Mi ritrovai, in una specie di galera tutta chiusa.  Non c’era erba, non c’era cielo, né alberi, né grilli,
e nemmeno le stelle.
Cominciai a gironzolare in quegli spazi stretti , cercando un angolo tranquillo dove riposare e trastullarmi un po’, ma ogni volta che trovavo un posticino ad hoc, erano urla e strilli e subito qualcuno mi cacciava. Non sapevo più che pesci pigliare. Devo dire che nonostante le urla quotidiane, i miei umani mi hanno sempre voluto bene e a pappa non posso certo portare lamentele.
Se non fosse stato per la scoperta d’un bel terrazzo a portata di zampa, non sarei finito ….
Ma andiamo con ordine.
Ragazzi un terrazzo da sogno!
M’affaccio e ritornano i profumi antichi di quando ancora giocavo nell’erba. Il profumo delle rose, i fiori di zagara, i gelsomini e l’aria, l’aria frizzantina e la brezza del vento tra il pelo e nel naso; che meraviglia!
M’arriva persino il profumo di gatta, di gatta in amore e piano piano m’acquatto e zitto zitto m’avvicino al terrazzo confinante, faccio un salto e chi ti vedo? Lei, tutta bianca acciambellata su una poltrona tra cuscini morbidi e fiorati.
“Maoo” le faccio “Miao” mi fa e mi guarda intensamente con gli occhi tutti gialli, languidi, sbatte le ciglia, si gira e se ne va!  “Cavolo!” dico io. “ Me so proprio innamorato” e con salto agile e felino, casco nel terrazzo del vicino e cominciò a curiosare.
Da quella volta, lo riconosco, sono stato un disastro. M’era andata in fissa quella meraviglia di gatta e vivevo più di là, che a casa mia.
Ho esagerato talmente tanto che si lamentarono di me. Mi capitò di sentirlo personalmente “Signora mia il suo bel gatto sta sempre nel mio terrazzo. S’infila nei vasi, fa buche nella terra e miagola sempre, tanto che la mia piccola Milù non esce più fuori, povera gatta! Signora cara, il suo bel gattone, forse, deve essere sterilizzato. Dove passa lascia il segno!”  “Nooooo!!”  Sterilizzato?! Che parolaccia è!
Dovevo subito escogitare qualche piano, ma mi resi conto che l’unica via d’uscita sarebbe stata la fuga. Dovevo abbandonare la mia casa, i miei umani, la mia pappa, Milù! Si! Non c’era alternativa alcuna, certo è,  che non se ne parlava, io ai miei attributi non avrei rinunciato mai e poi mai.
Dovevo fuggire. Cominciai a pensare a un piano d’evasione.  Sarei passato dal terrazzo, salito sui tetti e poi, qualcosa avrei fatto.
E così quella notte, quatto quatto, mi nascosi dietro un vaso e quando vidi spegnere la luce nella stanza dei sogni dei miei padroni, cominciai la salita su per i cornicioni fino ad arrivare sul tetto del palazzetto, a un passo dalla luna.
Mi resi subito conto di trovarmi in un labirinto di tetti, di case, di strade, di vicoli, di piazze; troppo per me.  Ci misi tutta la notte a scendere in strada ed ero stanco, affamato, solo e disperato.  Rumori, macchine, gente, luci, mi sentivo perso e impaurito, mi ficcai sotto un grosso furgone e rimasi lì per ore.
Da allora, vi dico, fu un periodo da incubo; il pericolo era diventato il mio fedele compagno.
Il mio primo compito al mattino era quello di rimanere vivo fino a sera. Dapprima, rimediai pure, qualche bottarella al fondo schiena, non riuscivo a svicolare quel mare di attrezzi a quattro ruote, che vagavano impazzite per ogni dove; poi arrivava l’ora dei pasti ed erano dolori, perché per rimediare qualche cosa da metter sotto i denti, dovevo improvvisarmi scalatore, salire su in cima a degli enormi bidoni neri (scoprii poi che li chiamavano cassonetti) e intrufolarmi dentro a cercare, tra scarti , puzze e robe vecchie, qualcosa di commestibile per non morir di fame. E che dire di quella volta, che proprio dentro a una di quelle grandi bocche nere,  trovai un bel coscio di tacchino? Stavo lì bel  bello a gustare quel bottino, quando rischio di finir infilzato come un pollo. E già! Era un umano mezzo matto che puntellava a più non posso proprio dentro, tra i rifiuti. C’è mancato poco che mi centrasse in pieno.
Per non parlare di “Er Guercio”, il capo della banda del quartiere, un fratello gatto come me!  Tutto nero, coda mozza e cieco d’un occhio, un vero malandrino. Alla fine m’ha cacciato.  Ma in fine sapete che vi dico? Lo devo pure ringraziare! Non fosse stato per lui, adesso non sarei il gatto più fortunato della Capitale!
Beh, abito in un vicoletto a Trastevere, a due passi dal fiume e dalle più belle chiese di Roma.
Ho il padrone macellaio. M’ha adottato in un giorno di diluvio universale. Gli ho fatto proprio pena! Sporco, fradicio e morto di fame. M’ha detto “Famo un patto, tu m’ammazzi li sorci e io te do vitto e alloggio”.
Ed è andata proprio così.
Ormai sono un paio d’anni che abito qua, con la compagna della mia vita, la mia bella Rosita e tutte le sere quando l’aria lo permette, saliamo sul tetto e insieme miagoliamo alla nostra cara Luna!
Profilo Autore: elisa  

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Anche oggi ho visto la solita coppia. Seduti allo stesso tavolo di sempre, sempre vicini, gomito a gomito e mai uno di fronte all'altra. Parlano tantissimo, sorridono altrettanto e di frequente ridono. Non sono mai più distanti di un braccio nè più vicini di un dito. Passo il mio tempo a guardarli, è una delle cose più belle osservare l'amore mentre accade. Si amano questi due, è così evidente che nemmeno se uno avesse il nome dell'altro dipinto in fronte sarebbe più chiaro. Ma non stanno insieme. Vivono un amore da terra di mezzo, non sono amici e non sono sposati, non fra loro perlomeno, non convivono nè sono amanti. Stanno così bene quando se ne stanno lì a fare il pieno di se stessi a vicenda, almeno quanto stanno male quando si salutano. Escono e rimangono a fronteggiarsi, senza riuscire mai a decidersi a lasciarsi andare, forse lo hanno già fatto una volta di troppo in qualche momento del loro passato che non sanno se ci sarà un'altra volta. Sorridono sempre, si stringono la mano, un bacio sulla guancia e poi lei si allontana, il tempo di mettere qualche metro fra loro e si gira un'ultima volta, un ciao affettuoso a fior di labbra e la mano che agita il nulla, con il sorriso più malinconico che si possa vedere. Lui la guarda, probabilmente come se nella sua testa si fosse attivata una moviola, la vede allontanarsi piano, lentamente, riesce forse a cogliere il movimento di ogni singolo capello, di ogni muscolo di lei, le pieghe degli abiti e l'ultimo soffio del profumo. Quando lei alza la mano, lui la solleva solamente, a stento il suo ciao si limita ad un paio di dita, e quando l'angolo si porta via la sua compagna, le sue spalle si afflosciano, come fanno tutti i sacchi svuotati da ciò che li riempie. È uno di quegli amori per il quale una fede non rappresenta nulla, i confini di un amore così esistono solo nelle convenzioni, sono due che percorrono la stessa vita su strade differenti, sono due che guardandosi vedono il riflesso della loro esistenza in quella dell'altro. Nessuno dei due, senza l'altro, troverà mai la sua risposta. È un amore unico, indissolubile, invisibile e indistrutttibile. Perfetto.

Profilo Autore: Fabio F  

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La giornata si presentava intensa d’impegni  tra lezioni da seguire, pratiche da perfezionare presso la segreteria universitaria, dispense da acquistare, provvedere alle necessità giornaliere per la sopravvivenza, quella mattina che, come ogni mattina mi vedeva scendere le scale della mia abitazione per recarmi al bar a far colazione. Ero talmente preso dai miei pensieri che, stranamente, non mi accorsi nemmeno di quella splendida massaia che era la mia vicina di casa, che arrancava, appesantita dalla borsa colma della spesa, verso casa. La sua voce bassa ed educata mi giunse come fosse trasportata da qualche vento lontano.

·         Signore mi scusi…

·         Buongiorno, mi dica…posso esserle d’aiuto ? Dia a me la borsa gliela porto io fino a casa…

·         No, non per questo mi sono permessa di fermarla. Mi permetta, invece, di chiederle…sa, notavo, avendola incontrata spesso al mattino…ma lei, ad inizio giornata…è sempre così. come dire…incavolato, scuro in volto ?

Già, com’ero io, non solo al mattino ma sempre. Bella domanda ! Ognuno di noi, in effetti, ha due volti. Quello con cui vuole apparire e quello che nasconde nell’intimo di se stesso. Siamo molto simili a Giano bifronte e, a volte, diversi. E, molto spesso, l’apparire camuffa l’essere di ogni individuo.

·         Tranquilla, signora, mi vede così perché ancora sto dormendo. In genere sono…un pacioccone spassoso, almeno così dicono gli amici.

·         Meno male ! Volevo chiederle una cortesia e, visto che mi ha confermato di non essere burbero, vorrei che lei mi prestasse attenzione…non ora, avrà degli impegni, credo, diciamo verso le sedici, a casa mia, sia puntuale, mi raccomando !

·         Ehilà, quanti misteri ! Però, insomma, una bella donna varrà qualche sacrificio ! Infine, la cortesia che voleva da me poteva essere quella di aiutarla a cambiar posto a qualche suppellettile, nella mia umiltà non credetti ci fosse altro ! Quindi promisi e così fu. Alle sedici, puntuale, bussai alla porta di casa sua. Ero ansioso e un po’ eccitato per quell’incontro con una donna tanto modesta nell’abbigliamento e nel portamento, quanto bella e misteriosa. Io, giovane studentello al secondo anno di medicina, la immaginai come la mia prima e non certo ultima, avventura con una donna più grande di me. La porta si aprì lo spazio necessario per fare uscire la sua testa che, dopo avermi osservato, permise che la stessa si spalancasse definitivamente per farmi entrare. L’atmosfera era ovattata, quanto discreto il suo saluto sussurrato foriero di dolci trame. Non ebbi tempo per esprimere questa mia impressione favorevole, che dalla fine del corridoio mi colse l’urlo di un bimbo che correndo si aggrappò al vestito della madre. Un particolare inquietante che vanificava, in parte, le mie aspettative da quell’incontro.

·         Suo figlio signora ? Non sapevo ne avesse !

·         Ma certo che ne ho. Di la ho la femminuccia…per questo l’ho chiamata.

·         Strano…non mi spiego l’attinenza tra la sua femminuccia e me…ma me lo spiegherà.

·         Venga, venga che gliela farò conoscere.

Così dicendo, mi fece entrare in un ambiente alquanto angusto, indice di una povertà dignitosa nelle sue espressioni. Su un tavolo piccolo, erano sparsi dei libri e al suo capo era seduta una fanciulla di aspetto fisico diverso da quello della madre. Era una ragazza ben impostata, massiccia, bella senza dubbio ma…statica. La madre aveva una bellezza diversa, più dolce, una figura prorompente nelle forme, il passo sensuale, felino. Insomma, da quanto colsi, mi trovavo da vanti ad una diciassettenne, per giunta timida ma imponente, era alta quasi quanto me ! Si chiamava Elena.

·         La mia Elena, è arrivata al penultimo anno del suo corso d’istruzione è ha qualche deficienza in Biologia, i professori ritengono che abbia bisogno di qualche lezione integrativa .Ora…sa…di questi tempi i soldini non bastano mai. Ho pensato a lei, o a qualcuno degli amici che condividono il suo appartamento. Siete tutti universitari, forse potreste darle una mano e stamattina ho trovato il coraggio di chiederlo a lei.

Prima mazzata che mi cadde tra capo e collo. Era stata, dunque, una casualità, l’interesse verso di me ! Eppure io sono…si, non sono un granché ma non sono malaccio in fondo e poi, sono tanto simpatico…a detta della mia mamma ! In fondo, un gran cuore l’abbiamo anche noi grandi conquistatori ! A quel punto mi venne da chiedermi, conquistatori  “de che ?” perché la signora mi aveva glissato e dovevo, ora, ritrovare una strategia per entrare nel suo gradimento. Dopo averle assicurato che mi sarei occupato io della sua ragazza, individuammo un orario o meglio, mi imposero un orario pomeridiano confacente più a loro che a me, ed io, ogni giorno mi presentavo puntuale con la speranza di riuscire a star solo con la madre. E, invece, una sera mentre “la mia allieva” studiava da sola, chiesi alla madre che sferruzzava accanto a me, che mestiere facesse il marito, di cui stranamente, non si parlava mai. Mi rispose con grande agitazione che faceva il facchino alla stazione e che non me ne parlava perché essendo un tipo molto geloso non era al corrente della mia presenza a casa sua. A questo punto cominciai ad andare in agitazione anch’io e, involontariamente, mi diedi un’occhiata attorno, quasi a cercare un’eventuale via di fuga. Chiesi, quasi con indifferenza come fosse di costituzione e mi fu risposto un laconico : robusto, che non riuscì a dissolvere la mia ansia. Per niente. Poi un giorno avvenne, inesorabilmente, inevitabilmente. Questo perché la donna dei miei desideri, infine, lo aveva avvertito della mia funzione e della mia presenza a casa sua nelle ore pomeridiane. Mentre stavo spiegando alla “femminuccia” l’ereditarietà dei caratteri, squilla il campanello della porta che venne aperta e pesanti passi si avvicinano alla stanzetta in cui ci trovavamo. A quel punto mi girai per vedere chi stesse entrando e quando la sagoma si stagliò tra i battenti, maestosa, imponente, apparve la figura di Macis…..scusate, del marito della signora. Restai annichilito ! Non una parte di quel corpo era privo di muscoli che guizzavano da ogni parte. Due mani nodose e rudi erano le sue terminazioni e facevano tanta, tanta paura. Non mi guardò nemmeno, eppure sentivo che mi teneva sottocchio. Mi feci coraggio, mi alzai e, protendendo la mano, mi presentai e lo salutai. Mi sfiorò con lo sguardo e rispose stringendomi la mano a tenaglia. Non gridai per dignità e per la consapevolezza di poterlo fare per i restanti cinque giorni della settimana.

·         Ciao professore. – mi disse –

·         Non sono professore sono studente di medicina. – risposi quasi a volermi giustificare –

·         Professore, studente, che differenza fa ! Tutta roba da scuola…. – rispose spazientito –

Per me, in quel momento, andava bene anche così. Non avevo proprio voglia di contraddirlo. Voi si ? Dopo sparì nei meandri della sua casa e solo una volta sentii la sua voce tuonare verso la moglie un “Giovanna” che sicuramente avrà fatto smuovere gli aghi dei sismografi di tutta Italia. Al più presto sgattaiolai da quella casa e mi rifugiai a casa mia che riscoprii un Eden. Mai più, mai più giurai ! Ancora con i denti che battevano all’impazzata e non me ne vergognavo, guardai le foto delle mie colleghe di università e delle mie care amiche, anche se erano una fonte di imbarazzo, capivo che, il loro non essere…prodighe di generose attenzioni verso la mia persona, non mi avrebbe mai portato a vivere situazioni angosciose come quella che avevo appena passato ! Ovviamente gli amici che vivevano con me non ne seppero mai nulla. Per loro resterò unico,  il più grande, Quello che era stato con una donna grande, sposata e con un marito mostro, geloso. Mentre io, dentro me, vedevo ancora il volto del giovane maturando, un pò pavido, con molte insicurezze  e un po’ di presunzione. Due volti, insomma.
Profilo Autore: Bronson  

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Ogni delitto è generato da un movente e questo potrebbe essere la gelosia, il denaro oppure la vendetta come unica soluzione. Esistono, però, casi di omicidi messi in atto da soggetti parzialmente o totalmente infermi di mente.

La difficoltà nel condurre un’indagine di omicidio è caratterizzata proprio dalla ricerca del movente, legato saldamente alla vita della vittima o agli ultimi giorni della sua esistenza.

Dopo tanti anni di servizio nell’Arma dei Carabinieri ritengo, senza peccare di presunzione, di essere oramai specializzato nella tecnica investigativa, potendo così, in numerosi casi, scovare i colpevoli di efferati omicidi.

            Quello che vado a narrare è il corso degli eventi legati ad un uomo, proveniente da lontano, che venne ucciso per causa della sua avidità, dopo avere incontrato una persona senza scrupoli più avida di lui.

Era una domenica d’autunno, nuvolosa e triste nonostante la temperatura fosse alta rispetto alla media stagionale.

In quel periodo, presso la sede fieristica di Brescia, fu allestita una mostra d’antiquariato alla quale parteciparono numerosi espositori, tra i quali appassionati di mobili antichi, collezionisti di gioielli preziosi e di oggetti antichi di varia natura.

La sera di un sabato ebbe luogo l’inaugurazione della mostra, alla presenza di Autorità politiche e del mondo dell’Arte.

Durante la cerimonia, che terminò all’una del giorno seguente, giornalisti e fotografi di ogni testata giornalistica fecero a gomitate per ottenere l’esclusiva delle interviste e delle immagini dei diversi personaggi famosi intervenuti.

 L’esposizione avrebbe finalmente avuto inizio per tutti gli appassionati alle 10.00 di domenica ed alle 8.00 vi era già una lunga coda di appassionati.

Poiché quella domenica fu per me un giorno libero dagli impegni di lavoro, accompagnai mia moglie a visitare quelle meraviglie, quindi mi trovai anch’io in coda ad attendere l’apertura.

A pochi minuti dalle 10.00 si udì provenire, dall’interno della struttura, un grido di donna che suscitò in tutti la giusta preoccupazione.

Superai velocemente l’ingresso e la postazione di controllo dei biglietti e mentre esibivo il mio distintivo, mi feci largo, dicendo agli incaricati del controllo:

  • Sono il Maresciallo Mauro della squadra “omicidi”, devo accertare l’accaduto! Da quale parte proveniva il grido?

  • Passi pure Maresciallo, l’urlo pareva che provenisse dallo stand dell’antiquariato situato sulla sinistra a metà del corridoio centrale, ma non sappiamo altro.

  • Grazie, ci penso io!

    Mi recai con passo svelto nella zona indicata e durante il tragitto, ipotizzai tra me e me ciò che poteva essere accaduto, forse per esorcizzare l’ipotesi di un fatto delittuoso ed immaginai che qualcuno si fosse ferito lavorando, ma vidi qualcuno avanzare verso di me, con passo altrettanto svelto, dallo stand dell’antiquario indicato.

    Era una guardia giurata di mia conoscenza che mi disse con un tono agitato:

  • Mauro! È stato trovato il corpo di un uomo all’interno di una cassapanca antica: stavamo controllando lo stand, quando il proprietario e sua moglie, nell’aprirla, hanno fatto la macabra scoperta.

    Proseguendo, telefonai alla Centrale Operativa, informando il mio Comandante dell’accaduto e gli dissi che stavo eseguendo i primi accertamenti del caso.

    Giunto allo stand antiquario, feci allontanare i curiosi in modo da impedire l’inquinamento del luogo del ritrovamento con le loro tracce, raccomandando loro di rimanere a disposizione fino all’arrivo della pattuglia del Nucleo Radiomobile, alla quale avrebbero dovuto declinare le proprie generalità e rilasciare le proprie dichiarazioni circa l’accaduto.

    Controllai innanzitutto la serratura della cassapanca in cui fu ritrovato il corpo, ma non vi rilevai alcuna forzatura. Perciò, chiesi al proprietario se il mobile fosse stato chiuso a chiave prima della sua riapertura e lui rispose senza esitazioni:

  • No, Maresciallo, non era chiusa a chiave, ma non ve n’era bisogno perché non custodivo nulla al suo interno!

                Esaminai il contenuto del mobile e constatai la presenza del corpo senza vita di un uomo dall’apparente età di 35 – 40 anni, adagiato sul fianco sinistro e indossante un elegante abito di colore nero, di una non meglio precisata marca. Costui aveva ancora gli occhi sgranati che segnavano un’espressione di paura.

                Telefonai nuovamente al mio Comandante per informarlo dell’effettiva esistenza di un cadavere, ragguagliarlo circa gli elementi che avevo acquisito sino a quel momento e chiedergli l’intervento della Sezione Scientifica.

                Il Colonnello mi incaricò del caso, ovviamente, ordinando di comunicargli i risultati circa gli accertamenti riguardanti l’identità del cadavere.

                Nel frattempo giunse la pattuglia del Nucleo Radiomobile.

    Il Maresciallo, capo servizio, si avvicinò per ottenere le istruzioni circa gli atti da compiere:

  • Identifica tutti i presenti ed il personale di servizio ai padiglioni. Fatti dire da ognuno dove si trovava al momento del rinvenimento del cadavere e che cosa stesse facendo, ma per prima cosa, comunica alla gente in coda all’ingresso che può tornare a casa, perché la mostra viene sospesa. Spiega loro che i locali della fiera sono a completa disposizione della Magistratura per il tempo necessario alle indagini e che nessuno può entrare, almeno per oggi.

    Inoltre, chiesi al Maresciallo, dandogli le chiavi della mia auto privata, di consegnarle a mia moglie, dicendo anche a lei di tornare a casa e che le avrei telefonato più tardi.

    I ragazzi della Scientifica giunsero dopo qualche minuto e, dopo avere eseguito i rilievi fotografici dei luoghi, dei particolari della cassapanca e del cadavere, passarono all’acquisizione delle impronte palmari latenti.

    Ispezionare attentamente l’interno della cassapanca fu impossibile, finché il corpo si trovava al suo interno, quindi, prima finimmo tutti i rilievi sul mobile e, soltanto dopo avere spostato il cadavere, facemmo un controllo accurato anche al suo interno.

    Lasciando l’interno del mobile all’esame della Scientifica, cercai il portafoglio nelle tasche dell’abito indossato dal cadavere.

    Trovai la sua carta d’identità e, leggendovi i dati anagrafici, sentii di potere azzardare l’ipotesi che costui non poteva avere attinenza con una manifestazione del genere perché si trattava di un operaio metalmeccanico proveniente dalla provincia di Como: sia la professione sia il luogo di provenienza, troppo distante, facevano apparire sospetta la sua presenza in quel luogo.

    Il suo nome, Folloni Riccardo, classe 1962, residente a Ponte Chiasso, da un primo esame, presso la nostra Banca Dati risultò essere pregiudicato per reati connessi agli stupefacenti.

    Scavando nel cuore della sua vita, si materializzò chiaramente la sua discordanza con l’ambiente.

    Allora, perché si trovava a quella mostra?

    La risposta avrebbe potuto trovarsi celata in una sua attività criminosa e il movente che più collimava con la sua vita fu il suo collegamento, indubbio, con l’ambiente degli stupefacenti.

    Esaminai sommariamente, ancora una volta, il cadavere, ma non notai alcun segno di lotta, né tracce chiare sotto le unghie, tali da fare pensare a una colluttazione e a un tentativo di difesa.

    L’analisi del corpo mi permise di rilevare soltanto un foro di proiettile sulla nuca, che sicuramente fu la causa del decesso. Per averne la certezza, però, dovevo aspettare il risultato dell’ispezione cadaverica e dell’autopsia.

    Quel corpo senza vita mi parlava e le poche tracce che avevo rilevato mi raccontavano sottovoce, grazie alla mia esperienza, che Folloni era stato attirato in una trappola mortale da qualcuno che lui conosceva bene.

    L’indagine finalizzata all’identificazione del responsabile dell’omicidio era molto difficile, me ne resi conto, ma gli accertamenti per supportare la mia ipotesi dovevo ancora compierli e richiedevano tempo!

                Ne informai il mio Comandante, che accettò la mia ipotesi circa il movente legato alla droga, perciò incaricai l’Appuntato Satta di esaminare, non solo l’elenco del personale di vigilanza, ma anche quello del rimanente staff impiegato nella gestione dei diversi punti espositivi.

    Lo scopo di quella verifica fu di identificare, negli elenchi, chi avesse avuto precedenti legami con il giro della droga, in particolare con la cocaina, poiché il precedente penale di Folloni riguardava proprio un’operazione antidroga risalente al 1990, nel corso della quale furono identificati gli appartenenti alla nota “banda dei viaggiatori” con un’operazione di servizio decisiva compiuta dai Carabinieri al confine con la Svizzera.

    Lui non fu altro che un pesce piccolo dell’organizzazione, uno dei tanti che si davano da fare per interesse, ottenendo qualche dose di droga quale pagamento, in cambio di lavori legati al giro.

                I rilievi della Scientifica continuarono per gran parte della giornata a causa degli spazi immensi da esaminare.

                Lunedì mattina alle ore 09.00, presso l’Istituto di Medicina Legale di Brescia, ebbe luogo l’autopsia di Folloni.

                Oltre al colpo d’arma da fuoco alla nuca, il Medico Legale non riscontrò altre lesioni mortali, quindi confermò la mia ipotesi, dichiarando nel verbale che la causa della morte era da attribuirsi ad un colpo d’arma da fuoco esploso in corrispondenza dell’osso occipitale del cranio, con una traiettoria orizzontale da distanza ravvicinata, a giudicare dalla presenza di una bruciatura o “tatuaggio”: che praticamente deponeva a favore dell’ipotesi, secondo la quale lo sparatore avrebbe colpito il Folloni, tenendo l’arma ad una breve distanza dalla sua testa.

                Fu estratta l’ogiva dall’osso mascellare, su cui si era conficcata e la inviai al R.I.S. per l’esame balistico.

                Portai avanti l’attività d’indagine sulla traccia degli indizi che avevo raccolto sino a quel momento.

    Controllai attentamente le dichiarazioni rilasciate dal personale al capo pattuglia, constatando che nessuno di loro, prima, aveva visto il cadavere, a parte il proprietario dello stand d’antiquariato e sua moglie. Tutti si erano avvicinati soltanto quando udirono la signora urlare, dopo che questa aprì la cassapanca.

                Esaminando le dichiarazioni, mi assalì un’intensa sfiducia nella riuscita dell’indagine, poiché non trovai elementi per collegare nessuno dei presenti, in qualche modo, alla vittima, quindi mi domandai se le guardie giurate presenti all’interno della struttura fossero veramente tutte persone “pulite”, oppure, qualcuno di loro, nascondesse uno scheletro nel suo armadio.

                Controllai con l’aiuto di Satta le generalità di tutti gli agenti ingaggiati dall’organizzazione della Fiera, al fine di scoprire se tra essi ci fosse qualcuno collegato alla vittima.

                Vi erano persone da me ben conosciute e per le quali avrei potuto garantire personalmente, ma controllai ugualmente, per uno scrupolo di coscienza, perché nella vita non si è mai certi dell’integrità di chi si conosce.

                Lavorammo al computer, per l’intera nottata, alla ricerca delle informazioni sul conto delle guardie giurate esaminate e, finalmente, all’alba emerse un particolare inquietante: l’agente privato Ciocchi Fabrizio, che fu assunto dalla “Vigilanza Urbana” circa nove mesi prima, aveva nel suo curriculum lavorativo un passato che mi diede da pensare.

    Per essere più preciso, aveva lavorato per diversi anni a Ponte Chiasso, in provincia di Como, in qualità di operaio e fu licenziato nel dicembre 1989, ma la motivazione del licenziamento, nella banca dati, non era menzionata.

    Perciò, per saperne di più, feci una telefonata al Comando Provinciale dei Carabinieri di Como, chiedendo informazioni al Comandante della Stazione.

                Questi, dopo avere ascoltato il motivo della mia chiamata, nel sentire il nome di Ciocchi iniziò a parlarne senza interruzione, raccontandomi tutto riguardo alle sue vicissitudini e confermando i miei sospetti, perché i colleghi che agirono nell’operazione antidroga riguardante la “banda dei viaggiatori” collegarono Ciocchi a Folloni Riccardo, ma nel corso di quell’indagine era stato accertato che non aveva avuto un ruolo importante, pur essendoci una stretta amicizia con l’attuale vittima.

                Per quanto riguardò il suo licenziamento, il Comandante poté affermare che Ciocchi era stato letteralmente “cacciato” perché ritenuto responsabile di furti di denaro dagli indumenti, di proprietà dei suoi colleghi, negli spogliatoi.

                La mia convinzione prendeva progressivamente corpo: la pista dell’amicizia tra Ciocchi e Folloni era la chiave del caso!

                La Scientifica, nel frattempo, dopo avere esaminato gli abiti della vittima, rilevò un leggero deterioramento con una minuta traccia d’olio per armi all’interno della cintura dei pantaloni che, in corrispondenza di essa, si trovava anche sulla camicia indossata da Folloni.

                L’ipotesi per cui la vittima si presentò armata all’appuntamento, quindi, poteva essere valida! Ma dov’era finita l’arma?

                Data l’amicizia tra Folloni e la guardia giurata, che avevo verificato con il Comandante della Stazione Carabinieri di Como, ordinai di rintracciare Ciocchi, inviando tre squadre: una con il compito di perquisire il suo armadietto all’interno del capannone, una per ispezionare il suo armadietto presso la sede della ditta per cui lavorava e una con l’incarico di recarsi presso la sua abitazione che richiedeva una perquisizione locale per la ricerca di armi.

                Dopo circa mezz’ora, la squadra inviata presso l’Istituto di vigilanza m’informò del rintraccio dell’agente Ciocchi.

                Mi recai alla sede della “Vigilanza Urbana” e lì, dopo avere preso i dovuti contatti con il Dirigente del servizio, dal quale ebbi la massima collaborazione, raggiunsi al piano superiore la squadra incaricata della perquisizione.

                Aprimmo l’armadietto ed al suo interno trovammo molte cianfrusaglie, da sembrare l’armadietto di un rigattiere.

                Tra le tante cose inutili, trovammo una pistola semi-automatica, marca Beretta, calibro “22”: lo stesso utilizzato per uccidere Folloni Riccardo.

    Avvicinai l’arma per sentirne l’odore, così potei accertare che la pistola aveva sparato recentemente; inoltre, dal caricatore che normalmente contiene sette colpi, ne mancava uno.

    Guardai dritto negli occhi Ciocchi, facendogli capire che oramai non poteva avere scampo, ma lui evitava il mio sguardo, abbassando gli occhi.

                Tuttavia, al mio atteggiamento nei suoi riguardi, Ciocchi rispose, senza che gli chiedessi nulla:

  • Non so niente di quella pistola! Non so come si trovi proprio all’interno del mio armadietto!

  • Lasci perdere Ciocchi! Non si arrampichi sugli specchi e ci dica, piuttosto, dove ha messo la “roba”! Sappia che io sono a conoscenza di tutto, più di quanto lei non creda! Perciò, bando a questa sceneggiata e collabori!

    Ciocchi spostava il suo sguardo nervosamente, alternandolo tra la pistola che avevo in mano, il mio volto e la porta d’ingresso, come per cercare una via di fuga, ma, vedendosi con le spalle al muro a causa dei numerosi Carabinieri presenti nell’Istituto, con fare sempre più irrequieto, oltre che impaurito per le conseguenze, disse:

  • Ma… Io…E va bene! Avevo fatto tutto su commissione, procurando della cocaina ad alcune persone in vista che non potevano esporsi; la situazione, però, mi era sfuggita di mano quando quel “bastardo” pretendeva, com’era sua abitudine, più di quanto era stato pattuito, ma io, non avendo altro denaro oltre a quello che dovevo consegnargli, mi opponevo duramente mentre lui minacciava di usare la pistola che aveva con sé. Forse pensava che io avrei incassato quella minaccia senza alcuna reazione, ma si sbagliava! Estraevo la mia pistola dalla fondina e lo minacciavo, ordinandogli di darmi l’arma e di non fare lo stupido, altrimenti gli avrei prodotto un buco in fronte. Mi consegnava la pistola senza obiettare, ma dicendo che avrebbe denunciato tutti alla Polizia. Non ci vedevo dalla rabbia e, approfittando dell’arma che mi aveva consegnato, gli ordinavo di camminare verso lo stand dell’antiquario dove, una volta arrivati, sparavo colpendolo alla nuca. Lui cadeva a terra, morto e lo nascondevo nella cassapanca, sperando che non la aprisse nessuno!

  • Ci porti nel luogo in cui ha nascosto la droga, Ciocchi e non dimentichi il denaro!

    Così, Ciocchi ci condusse a casa sua, dove ci indicò il luogo in cui aveva nascosto il pacco contenente la droga. Lo stupefacente si trovava in cucina, sotto il lavello ed era ancora tutto da dividere tra chi ne aveva commissionato l’acquisto. Poi, dal ripostiglio situato nel sottoscala, estrasse una busta contenente trentamila euro che, a suo dire, erano i soldi concordati quale pagamento dello stupefacente stesso.

                Ciocchi, per timore di essere ucciso da chi aveva pagato la somma, rifiutò di rivelarne i nomi, ma, non ricevendo la merce, supposi che “quelli” si sarebbero arrabbiati ugualmente!

                Non mi restò altro che mettere dapprima “al fresco” Ciocchi Fabrizio, per l’omicidio di Folloni Riccardo e una copia del rapporto con l’esito della mia indagine nelle mani della Squadra antidroga, al fine di fare luce sull’identità dei personaggi implicati nel traffico di cocaina.

                Non vidi l’ora di tornare a casa per godermi un meritato riposo!    

Profilo Autore: Maurizio Vecchi  

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