Apriva un locale, intorno le dieci di sera, all'angolo di due portici soffusi. Nelle lampade pendenti cadeva un morbido calore, toccava terra, risaliva sugli intonachi scrostati. L'insegna era piccina, la porta pure era piccina, di vetri sottili come, quelli dei vetusti casolari, al crepuscolo lontani. La città era silente, per le strade e le piazze non v'era nessun passo di gente. Tutto era lì, oltre la porta piccina, dall'insegna sul muro, la dicitura "I Giovani Alati" incisa. Di giorno il locale era chiuso, dai vetri, poco curati, calavano a sipario tediose tende, come a teatro rosse, pareva un timido negozietto in abbandono. E teatro lo era sul serio, teatro della vita di sera, il bancone delle bevande acceso sui tavolini tutt'attorno dispersi, sparsi. Non vi ero mai stato, finché una sera Lucien non mi condusse al suo solito modo, senza inganni, senza affanni, facendo apparire il fatto assolutamente naturale, casuale. 
All'ingresso una modesta targhetta obbligava a lasciare le proprie personalità all'appendi abiti attiguo, con certezza che fossero ben custodite al costo di un solo denaro. Così ogni studente, di notte in fuga, lasciava lì appese tutte le sue maschere, ed entrava se stesso. Ero tranquillo con Lucien, ero certo che non mi sarebbe accaduto nulla, dentro quel teatrino senza personaggi. Piena era la sala, buia e soffusa, che, dalla gran folla, restammo per molto altro tempo in piedi, all'angolo del banco. Tutti i giovani alati erano in quella stanza ed io lo sapevo, che ognuno di quegli individui non era nessuno, proprio come Lucien ed io. La densa coltre di fumo di sigaretta nazionale si univa all'odore floreale d'altri tabacchi, ai vapori di narghilè fluttuanti, e al sapore di bevande forti. 
Domandai dell'acqua, ma il signore barista si rifiutò, allora scelsi una bevanda, ma egli declinò di nuovo. Venne in mio soccorso Lucien: "la vita è bella solo quando è vita e basta" disse, e funzionò. Poteva essere una sorta di parola d'ordine o che so io. Di seguito Lucien mi presentò a tantissime genti, sicché cessai col perdermi fra tutti quei volti e strette di mano sincere. Solo camminando solitario notai che quell'ambiente possedeva una pianta circolare, senza porte ne finestre, tant'è che mi agitai non poco quando realizzai che pure l'ingresso già non esisteva più. Inutilmente mi posi in sua ricerca, finché non incontrai nuovamente Lucien in motteggio con due alti giovani gagliardi. Asserì fissando il mio volto sconvolto e agitato. Gli giustificai le mie paure, consegnandogli le prove della stanza scevra di uscite, di entrate, o di finestre. Lui commentò, quasi privo d'interesse: "Questo è un cerchio!" Disse, "non v'è modo di uscire". 
Egli allora intuì e prese sul serio la mia preoccupazione, allorché prese congedo dai due alti ragazzi, afferrò con dolcezza la manica della mia camicia e mi condusse in disparte, per quanto fosse stato possibile. Così rispose e che graziosa voce possedeva! 
"La vita è un cerchio, taluni amano danzare nel cerchio, altri provano l'ardente desiderio di spezzarlo. Si può spezzare il cerchio, credimi". Non mi aveva affatto reso le idee più chiare, sicché trascorsero un'infinità di ore prima che mi accadesse un rivoluzionaria e inaspettata sorpresa, giacché le mie mani avevano passato, milioni e milioni di volte, ogni tratto del muro, senza mai trovarvi nulla. Poi, all'ennesimo tentativo, apparve dal nulla una maniglia d'ottone, che afferrai ed aprii senza indugio. Era una porta, incredibile! Non appena aperta vi trovai gli scalini di legno, che conducevano verso il basso, verso un altro bizzarro ambiente. Attraversai la soglia. Avevo spezzato il cerchio della vita, ora mi rimaneva soltanto di scendere.
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Profilo Autore: Ivan Forni  

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